Israele: critiche alle leggi razziali

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“Certe volte i leader israeliani si spingono talmente oltre da non rendere necessario un intervento palestinese per metterli in imbarazzo. Questa è una di quelle volte.” Sono dure le parole di Joarah Baker, portavoce dell’associazione Miftah, in relazione a una proposta di legge che nel democratico Stato di Israele ha fatto rabbrividire più di qualcuno. E non solo tra i palestinesi o gli arabi israeliani, o tra attivisti e ong.

Questa volta le proteste, di fronte alla proposta di legge approvata domenica dal Governo israeliano che potrebbe imporre ai futuri cittadini di religione non ebraica un giuramento di fedeltà allo “Stato ebraico e democratico”, sono di rango ministeriale e più di qualche autorità esprime disappunto negli editoriali dei principali quotidiani israeliani.

Ventidue su trenta ministri (la maggior parte di Likud, Shas e Yisrael Beiteinu) hanno, infatti, approvato una modifica, proposta dal ministro della giustizia Yaakov Neeman, alla cosiddetta legge della cittadinanza, il cui contenuto difficilmente lascia spazio ad eventuali dubbi sui destinatari del nuovo emendamento.

D’altra parte difficilmente il tentativo di imporre l’obbligo del giuramento di fedeltà a uno Stato “ebraico” per ottenere la cittadinanza in un Paese, dove oltre il venti per cento della popolazione appartiene a un’altra religione e la tutela delle minoranze rappresenta uno dei maggiori handicap a oltre mezzo secolo dalla fondazione, poteva passare inosservato.

“Non c’è neanche il bisogno di leggere tra le righe”, denuncia Yoarah Baker, “la legge è chiara e il gruppo-bersaglio è rappresentato da un settore: i palestinesi, in particolar modo quelli che vivono aldilà della Green line in quello che adesso si chiama Israele. Chiunque, insomma, voglia ottenere la cittadinanza israeliana pur non appartenendo alla religione ebraica”.

Dura anche la reazione di ACRI (Association for civil rights in Israel), il cui avvocato Oded Feller ha inviato una lettera al primo ministro Netanyahu e al ministro della giustizia Yaakov Neeman ancora prima del voto di domenica, denunciando l’emendamento e la grave violazione della libertà di espressione che esso comporterebbe. “Uno Stato che impone un’ideologia, richiede una dichiarazione di lealtà, e controlla il credo, le prospettive e le opinioni dei suoi cittadini non è una democrazia”, ha dichiarato il portavoce nell’appello rivolto al Governo israeliano. Aderire a un’ideologia, insomma, per ottenere la cittadinanza. Secondo ACRI si tratterebbe di una grave discriminazione nei confronti delle minoranze presenti ad oggi nello Stato e di un’umiliazione per chi volesse fare richiesta di cittadinanza in futuro.

Critiche poi, anche all’interno dello stesso partito di Netanyahu, il Likud. Il ministro per l’intelligence e l’energia atomica Dan Meridor, ha, infatti, dichiarato che non solo l’emendamento non sarebbe giustificato, ma che rappresenterebbe un attacco ai cittadini arabi israeliani. Un modo per ricordare loro che non fanno realmente parte dello Stato di Israele, e, soprattutto, un modo per estremizzare le posizioni, provocando inutilmente arabi musulmani e cristiani.

Un emendamento che trasformerà Israele, come suggerito dall’editorialista del quotidiano Haaretz Gideon Levy, ufficialmente in uno Stato etnocratico, teocratico, nazionalistico e razzista? Citando il noto giornalista, si potrebbe ricordare che, “per il momento, si tratta di uno slogan vuoto e ridicolo. Non esistono tre ebrei che potrebbero accordarsi sull’aspetto di uno Stato ebraico, ma la storia ci ha insegnato che anche slogan vuoti possono spianare la strada verso l’inferno. Nel frattempo, la nuova legislazione proposta aumenterà solamente l’alienazione degli arabi israeliani e, alla fine dei conti, anche settori ancora più ampi del pubblico.”

Michela Perathoner (inviata di Unimondo)

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