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GERD, la diga etiope che divide
Energie rinnovabili
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Foto: Unsplash.com
A inizio luglio è arrivato l’annuncio: “La Diga del Grande Rinascimento Etiope è stata completata” ha dichiarato alla stampa il Primo ministro etiope Abiy Ahmed dopo aver ultimato il riempimento del bacino della diga, operazione durata 3 anni. L’inaugurazione ufficiale giungerà a settembre.
Le Cancellerie di Egitto e Sudan, che si trovano a valle rispetto alla diga, dal 2011 restano avverse al progetto per i timori più che fondati che la chiusa costituisca una minaccia alla loro fornitura idrica proveniente dal fiume Nilo. Non bastano i messaggi amichevoli del governo etiope che parla di “un’opportunità condivisa” per l’intera regione, di fede “in un progresso condivisione, nell’energia condivisa e nell’acqua condivisa”. A cercare di individuare una soluzione alle forti divergenze nella gestione di una risorsa naturale vitale per quei territori non erano precedentemente riusciti gli interventi di mediazione della prima presidenza Trump e neanche quelli dell’Unione Africana. In particolar modo l’Egitto, che già soffre di una grave carenza idrica, vede nella Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) una minaccia esistenziale, poiché il Paese dipende dal Nilo per il 97% del suo fabbisogno idrico tanto per le famiglie quanto per l’agricoltura, soprattutto per la coltivazione del cotone. L’Egitto, con una popolazione di circa 107 milioni di persone, ha sostenuto che una riduzione anche solo del 2% della quantità d’acqua ricevuta dal Nilo potrebbe portare alla perdita circa 80mila ettari di terra irrigata. L’acqua del Nilo viene impiegata anche per alimentare il lago Nasser, il bacino artificiale creato dalla diga di Assuan, che ospita la centrale idroelettrica egiziana. Anche il Sudan, con una popolazione di 48 milioni di abitanti, dipende in larga misura dalle risorse idriche del fiume Nilo.
Ma diamo ora i numeri della diga: 14 anni di costruzione e messa in funzione, 10mila persone all’anno coinvolte nella costruzione, 4 miliardi di dollari di costo, 1,6 Km di lunghezza e 145 metri di altezza, 30 Km di distanza dal confine con il Sudan nella regione di Benishangul-Gumuz, 74 miliardi di metri cubi di capienza, più di 5.000 megawatt di energia potenziale generata, oltre 2 milioni di tonnellate di CO2 ridotte all’anno, l’impianto idroelettrico numero 1 in tutta l’Africa. A questi numeri si aggiungono quelli di oltre 20mila etiopi “ricollocati” per la costruzione dell’opera e quelli, non quantificabili, delle forti alterazioni nella ragione delle attività umane come la pesca e l’agricoltura. La diga si colloca sul tratto del Nilo Azzurro che attraversa gli altopiani del nord dell’Etiopia, da cui proviene l’85% delle acque del Nilo. Un’opportunità che Addis Abeba non intende farsi sfuggire per produrre l’energia elettrica di cui ha bisogno per lo sviluppo di un Paese di 130 milioni di persone (il secondo più popoloso del continente africano), dove il 60% della popolazione non ha accesso all’elettricità. Una risorsa, inoltre, che l’Etiopia appare consapevole di voler sfruttare per ricoprire un ruolo cruciale nella Regione in quanto esportatore di energia in tutta l’Africa Orientale, anche limitando quello del vicino Egitto e ipotecando quello potenziale del Sudan.
Una cosa è certa: il completamento e pieno utilizzo della diga modificherà notevolmente il panorama energetico regionale, ma proprio la mancanza di consenso tra i Paesi coinvolti fa sì che la situazione sia ancora oggi incerta. Da oltre un decennio la crisi diplomatica tra Etiopia, Egitto e Sudan generata dalla GERD aggiunge benzina alla già infiammabile geopolitica del Corno d’Africa e la disputa va ben oltre la gestione tecnica delle risorse idriche della regione, toccando questioni di legittimità nazionale, sovranità territoriale e stabilità regionale. Dietro lo scontro sull’acqua si nasconde un intreccio ben più profondo di fragilità politiche interne. Le rivoluzioni egiziane, la transizione post-Bashir in Sudan e il conflitto etnico in Tigray in Etiopia non solo condizionano le posizioni negoziali dei governi, ma trasformano il GERD in uno strumento di politica interna. I leader lo utilizzano per rafforzare il consenso, deviare l’attenzione dell’opinione pubblica e riaffermare sovranità.
Nel frattempo, il confronto si internazionalizza. Cina, Stati Uniti, Unione Europea e Paesi del Golfo si muovono sullo scacchiere del Nilo con interessi divergenti, spesso alimentando la polarizzazione anziché favorire la mediazione. Più che una diga, il GERD si sta rivelando un simbolo di come le crisi ambientali e le dinamiche geopolitiche siano oggi inscindibili.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.