Un Mediterraneo tropicale…

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Foto: Unsplash.com

In tempi di Covid-19 la domanda che in molti dovremmo farci non è solo quando rivedremo il mare da vicino, ma che mare rivedremo. Sicuramente meno inquinato. Come l’aria, anche l’acqua sta traendo beneficio dalle limitazioni delle attività antropiche e fanno notizia le immagini di una Venezia con i canali limpidi e popolati di pesci almeno come i delfini che nuotano indisturbati nel porto di Cagliari. Quella che per ora è principalmente un’immane tragedia sanitaria, con ripercussioni economiche che non è ancora facile quantificare, sta avendo ottimi effetti solo nel campo ecologico, almeno sul breve periodo. Sul lungo periodo sappiamo invece che il cambiamento climatico e il conseguente riscaldamento globale è un processo in atto da anni e sta portando alla tropicalizzazione degli ecosistemi marini temperati, un processo che danneggia le praterie di piante e alghe anche nel Mediterraneo con conseguenze significative sul funzionamento dell’ecosistema del Mare nostrum. Lo studio “Tropicalization may invert trophic state and carbon budget of shallow temperate rocky reefs”, pubblicato lo scorso anno sul Journal of Ecology da un team di ricercatori del National Institute of Oceanography israeliano, ha provato a testare in che modo “la tropicalizzazione influenza le funzioni di approvvigionamento dell’habitat e il ricambio di carbonio di una scogliera poco profonda nel Mar Mediterraneo sud-orientale”. I risultati non sono stati confortanti.

Secondo quanto emerge dallo studio, alcune specie invasive tropicali stanno cambiando i fondali del Mediterraneo molto di più di quanto si pensasse: “li stanno trasformando da ricchi pozzi di carbonio, che estraggono l’anidride carbonica dall’acqua e la immagazzinano, in fonti di carbonio che contribuiscono a un ulteriore riscaldamento”. Questo cambiamento, che finisce per avviare un pericoloso circuito che facilita la diffusione di altri distruttivi invasori tropicali, i ricercatori israeliani lo hanno evidenziato studiando un habitat formato da una prateria di alghe brune autoctone (Cystoseira), che in molte aree mediterranee è la prateria sottomarina predominante. L’analisi di questio ambiente marino “esemplifica le possibili conseguenze funzionali dei cambiamenti di regime portati dalla tropicalizzazione su scogliere rocciose temperate poco profonde e su come queste possano invertire lo stato trofico netto e l’equilibrio del carbonio”. Per Ohad Peleg, l'ecologo marino dell’Università neozelandese di Auckland che ha guidato lo studio, “L’afflusso di specie tropicali sta trasformando le tipiche scogliere temperate in qualcosa di sempre più tropicale. È una deriva abbastanza folle”.

Secondo Peleg, che conosce bene quei fondali fin da bambino, oggi il fondale marino del Mare nostrum è più sterile e invaso da creature tropicali, dal pesce coniglio che divora le alghe, ai pennacchi di alghe rosse calcificanti: “una china scivolosa, perché più il riscaldamento aumenta più aumenta la tropicalizzazione, che a sua volta aumenta le emissioni di carbonio”. L’habitat messo peggio è quello in cui pascolano i pesci coniglio che, dalle barriere coralline del Mar Rosso, hanno raggiunto il Mediterraneo attraverso il Canale di Suez e la cui presenza “è una delle cose peggiori che possano accadere alle scogliere temperate del mondo”. Anche secondo altri recenti studi il Mediterraneo sta facendo i conti da decenni con il problema delle “specie invasive”. Specie come meduse velenose, pesci palla e pesci leone, invitate dalle più miti temperature, dall’Oceano Indiano sono passate nel nostro mare sempre attraverso il Canale di Suez, scavato dall’uomo alla fine del XIX secolo, e nonostante inizialmente avessero incontrato un ambiente ostile, possono ora chiamare casa anche il Mare nostrum. Di fatto in questo Mediterraneo sempre più caldo queste specie stanno trovando il loro habitat naturale minacciando la biodiversità, l’economia e anche il turismo. Se il pesce palla, infatti, danneggia le reti dei pescatori, il pesce leone, estremamente velenoso al tatto e capace di riprodursi quattro volte più velocemente della media dei pesci autoctoni del Mediterraneo, mettendo con i suoi aculei in serio pericolo i bagnanti. 

Esiste ormai un consenso scientifico sul fatto che le introduzioni di specie non autoctone pongono rischi significativi per la biodiversità e gli ecosistemi fino al punto di avere impatti anche a livello economico e sociale. Questo non significa che gli scienziati pensino che ogni specie invasiva si rivelerà dirompente. In generale però, se si esclude qualche rarissimo esempio di “conservazionismo creativo” e di alcune rare specie aliene che non hanno avuto impatti destabilizzanti nei nuovi habitat, la maggior parte ha avuto effetti devastanti in tutti gli ambienti dove sono state introdotte. Per il team di studiosi, anche se la ricerca è stata condotta su una sola scogliera sommersa in Mediterraneo, gli effetti della tropicalizzazione e la conseguente “invasione aliena” potrebbero essere esemplari e globalmente devastanti come è avvenuto in Australia. Qui la barriera corallina è un chiaro esempio di disastro ambientale, tanto che “centinaia di chilometri di praterie di alghe sono già state spazzate via dalle ondate di caldo marine, con pesci tropicali invasivi che hanno eliminato le nuove comunità di alghe prima che fossero in grado di rigenerarsi”. Cosa significa? Che un sacco di carbonio stoccato non c’è più, il che significa che una buona parte è probabilmente tornata nell’atmosfera, aumentando le emissioni di anidride carbonica globali e di conseguenza il riscaldamento globale. Una sorta di gatto che si morde la cosa, deleterio per la sopravvivenza dei mari di tutto il mondo e non solo del Mare nostrum.

Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.

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