Maldive: l'isola della vergogna ecologica ed umana

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Tra il Sri Lanka e le Seychelles, nell’Oceano indiano, si estende un paradiso di 26 atolli nati da 1.190 isole coralline, di cui 93 occupate da un centinaio di villaggi turistici e resort pluri stellati, tra palmizi e acque cristalline. Siamo alle Maldive una delle mete preferite dei molti turisti soprattutto europei, disposti, a seconda delle tasche, a programmare nell’arcipelago la “vacanza della vita”, o “una delle tante della vita”, contribuendo così a garantire il 20% del bilancio della Repubblica maldiviana. Ma i turisti, si parla di 10.000 in settimana, circa 850.000 all’anno e tra i più affezionati c’è un 19.7% di italiani, non garantiscono solo una parte del prodotto interno lordo dell’arcipelago, ma anche la produzione a ciclo continuo di circa 3.5 chilogrammi di spazzatura a testa al giorno, che sommata a quella dei circa 350.000 mila maldiviani finisce tutta a Thilafushi, un’isola di spazzatura lunga 7 chilometri e larga 200 metri, che si estende per circa 50 ettari, a solo otto chilometri dalla capitale delle Maldive Malé. 

La cosiddetta “Isola dei rifiuti” meglio conosciuto come il “Pacific Trash Vortex”, una discarica di plastica nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico formatasi negli anni grazie alle correnti, la cui estensione non è nota con precisione (ma si stima che le sue dimensioni oscillino tra quelle della penisola Iberica e l’intera superficie degli Stati Uniti) non è quindi più sola. In realtà l’allarmante situazione di Thilafushi era già stata segnalata e resa nota nel 2009 dal quotidiano inglese The Guardian che aveva dato eco alle campagne di sensibilizzazione e informazione promosse dalla locale ong Blue Peace. Ma nonostante i rifiuti di tutto l’arcipelago siano oggi oggetto di una più attenta raccolta differenziata che finalmente separa plastica, alluminio, vetro e i materiali organici da compostaggio, con l’obiettivo di arrivare presto alla produzione di bioenergia, da Malé ogni ora partono ancora per Thilafushi una quantità di rifiuti equivalente a quella di cinque camion della spazzatura. Secondo i calcoli di Blue Peace, che dal 1989 si batte per mantenere intatto l'ecosistema maldiviano, gli scarti della nostra “civiltà” in vacanza nel paradiso tropicale fanno crescere l’isola di un metro quadro al giorno, regalando a questo piccolo ex paradiso adibito a pattumiera tropicale il primato mondiale per la grandezza e lo scontato soprannome di “Rubbish Island”.

Nata per volere del governo locale nel 1991 e realizzata l’anno dopo, oggi Thilafushi non fa solo i conti con l’aumento esponenziale dei metri cubi di immondizia prodotta dagli incantati turisti, ma anche con il cambiamento climatico e il conseguente innalzamento del livello del mare. Se fino a qualche anno fa, infatti, il problema dello smaltimento dei rifiuti maldiviani poteva essere rappresentato “solo” da una nube scura e maleodorante che offuscava Malé, oggi, con l’aumentare dei rifiuti elettronici costituiti soprattutto da batterie usate, cellulari e computer, la minaccia appare molto più seria. Come mai? A differenza di una qualsiasi discarica costruita su terra, a Thirafushi l’immondizia viene relegata su un sottile strato di sabbia, quanto basta a preoccupare gli ambientalisti di Blue Peace che temono, in previsione di un crescente innalzamento delle acque dovuto al riscaldamento globale, “la dispersione di sostanze tossiche nel mare a partire dalla zona costiera, con il conseguente inquinamento di tutto l'ecosistema”. Da qui, infatti, le sostanze inquinanti potrebbero entrare nel livello inferiore della catena alimentare attraverso le alghe, il plancton e i pesci per poi arrivare direttamente in tavola. Ma non solo. “Anche il patrimonio della barriera corallina rischierebbe di risentire negativamente della presenza di queste sostanze inquinanti disperse nelle acque”. Niente di più probabile visto che al momento sono già state definite zone morte 400 siti oceanici, che si estendono per una superficie di circa 250mila kmq dove, quasi del tutto, non sussistono più le condizioni di sopravvivenza degli ecosistemi. 

Ma a completare il panorama altamente inquinante di Thilafushi, sull'isola sono sorte circa una dozzina di aziende specializzate nella produzione ed esportazione di imbarcazioni, cemento e metano. Un vero “paradiso” dell'industrializzazione dove, secondo Transparency Maldives, ancor prima che un disastro ecologico si consuma un disastro umano, perché su quest’isola in fiamme degna di uno scenario post-apocalittico lavorano e vivono più di un centinaio di migranti bengalesi costretti a differenziare i rifiuti, smistarli e trasportarli respirando l’odore acre e spesso altamente tossico dell'immondizia data alle fiamme o in decomposizione. Qua si incrociano storie come quella di Afzal, “cinque figli e una moglie in Bangladesh, che da otto anni fa giornate di lavoro di undici ore, dalle sei del mattino alle sei di sera, con un’ora di pausa pranzo” o di “Qaasim, che, anziché dormire nei quartieri messi a disposizione della compagnia che gestisce la discarica, torna a Malé, dove vive in solitudine", ma lontano per qualche ora dalla puzza ha raccontato Andrea Di Pietro su il lavoro culturale.

Ma Thilafushi in realtà è solo una delle tante, e forse non la peggiore, tra le destinazioni dei lavoratori bengalesi alle Maldive sparsi tra le centinaia di isole a lavorare nei cantieri, molto spesso accontentandosi di avere un tetto sopra la testa, senza paga, senza diritti, senza neanche più la possibilità di tornare indietro rischiando per la paura di essere denunciati a causa della mancanza di un permesso di soggiorno. Una situazione simile ai migranti che lavorano nei cantieri aperti per i mondiali del 2022 in Qatar e che secondo le stime del Department of Immigration and Emigration maldiviano nell’arcipelago sono circa in cinquantamila, i più senza permesso di soggiorno e al momento senza alcuna risposta strutturale se non quella offerta dall'essere sfruttati nell'industria del turismo.

Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.

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