L’Ecuador sopraffatto dal virus

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Foto: Unsplash.com

Mentre i bollettini ufficiali emessi dal Ministero della Sanità, ancora oggi 6 aprile, sostenevano l’esistenza di 3.747 contagiati e 191 deceduti, gli Ecuadoriani hanno capito da tempo che la vera battaglia contro il coronavirus si sta giocando con ben altre proporzioni. I numeri, quelli pubblicati, non hanno più alcuna corrispondenza con la realtà. La tragedia, quella reale, manifesta, si sta consumando davanti agli occhi di tutti: hanno fatto il giro delle principali testate mondiali le foto di centinaia di morti per coronavirus riversati sui marciapiedi, abbandonati davanti ai portoni, agli angoli delle vie, oppure ammassati nei cassonetti dell’immondizia; lasciati lí per paura del contagio. Tutti avvolti, come mummificati, in rudimentali sacchi di plastica. Questa è la realtà crudele delle case, delle strade della metropoli di Guayaquil, 3,7 milioni di abitanti, che concentra più dei due terzi dei positivi della nazione, e di molte città della zona costiera, perennemente immerse in un caldo tropicale, che evidentemente non ha frenato l’avanzata del virus. 

Sono immagini impressionanti, che non hanno precedenti nella storia recente del paese latinoamericano, che sí ha vissuto i propri drammi, ferite profonde, crisi economiche, colpi di stato, guerre sanguinarie, ha avuto il suo periodo di dittatura, scioperi e rivolte massive, ma mai di un impatto visivo così lacerante, cosí destabilizzante. “È difficile verificare la veridicità di tutte le informazioni che arrivano”, riferisce Francesco Bonini, cooperante italiano, responsabile della ONG toscana COSPE“ciò che è certo è che la situazione è drammatica, e Guayaquil è sicuramente l’epicentro del contagio”.

Insomma, oltre all’emergenza sanitaria ed alla mancanza di una adeguata capacità ospedaliera per far fronte al virus dilagante, i cittadini di Guayaquil devono fare i conti con la crisi del sistema funerario, che fisicamente non riesce a ritirare i corpi morti dalle case. Gli operatori mortuari non sono più in grado di tenere il passo con la sepoltura o cremazione dei morti, che continuano ad aumentare esponenzialmente, anche a causa del coprifuoco imposto sotto la pandemia, in vigore dalle 14 del pomeriggio alle 5 del mattino successivo. Pure la sindaca della città, Cynthia Viteri, è risultata positiva al Covid-19, e dall’isolamento di casa si fa portavoce delle proteste dei cittadini che chiedono il recupero dei cadaveri dalle abitazioni e dai luoghi pubblici, di competenza del Governo centrale. Molti deceduti, segnalati ai numeri d’emergenza, sono rimasti in casa fino a 4 giorni. Sebbene in un primo momento fosse circolata l´ipotesi di fosse comuni, i familiari si sono opposti categoricamente, e la sindaca ha fatto allestire enormi container per la loro conservazione, in attesa che si eseguino le estensioni dei cimiteri.

In tutto ciò il Governo è piombato in una confusa paralisi. Ha riconosciuto le difficoltà oggettive nel ritirare i corpi delle persone decedute, e il presidente Lenin Moreno ha annunciato la creazione di una Task Force sotto la responsabilità di Jorge Wated, il quale ha garantito che i corpi riceveranno una tomba personale e non saranno sepolti in una fossa comune, come inizialmente proposto dalle autorità. In questi giorni, lo stesso Wated ha dotato la città di Guayaquil di oltre 4.000 bare di cartone per accelerare i processi di inumazione, sostenendo che “una bara di cartone è sempre più degna che lasciarli in involucri di plastica o seppellirli senza borse e senza niente”.

Tuttavia, non si fanno sufficienti tamponi, anche perché nelle province più contagiate il sistema sanitario pubblico è al collasso e lo Stato ha pochissime risorse disponibili, nel giorno in cui il petrolio, principale materia prima esportata del paese, raggiunge il record negativo di 30 dollari al barile. Una notizia riportata sul quotidiano locale El Comercio dichiarava che il 43,8% dei 3.747 contagiati sia rappresentato da personale medico: senza tanta retorica, sono semplicemente individui che hanno più facile accesso ai test. E, come tutti, dovranno rispettare i 15 giorni di isolamento richiesti. 

Un contesto che è purtroppo aggravato dal fragile quadro economico: a causa degli introiti persi dal petrolio, il paese è sprofondato in una crisi di liquidità, che ha coinciso col pagamento di 300 milioni di capitale di un prestito del FMI, per fortuna abbuonato dei 200 milioni circa di interessi accumulati. “Abbiamo avviato un processo di riprofilazione del debito estero, che è stato accettato dalle organizzazioni multilaterali. I soldi risparmiati sono stati investiti in sanità”, cosí chiosava Gabriel Arroba, responsabile comunicativo della Presidenza. Tutto ciò, però, si traduce nella totale mancanza di fondi per le piccole, medie e micro imprese, attualmente chiuse per un 80%, le quali si sognano i nostri sussidi e casse integrazioni varie. Uno studio allarmante della UDLA (Universidad de las Americas) calcola che le riserve del 50% delle imprese ecuadoriane potranno resistere non più di 37 giorni, a prova del fatto che si potrebbero scatenare caos sociali ingenti se si prolungasse di molto la quarantena.

Questo è lo specchio di un paese, come tanti, privo delle risorse necessarie per combattere efficacemente la piaga del COVID-19, sul quale gravano forti disuguaglianze sociali. In condizioni simili si trovano tanti altri paesi del Sud del mondo, dove il virus si è già diffuso, e dove tantissime persone muoiono e moriranno in silenzio, senza entrare nelle statistiche, nelle terapie intensive, lontani da qualsiasi forma di protezione sanitaria e sociale, i cui familiari a malapena possono farsi carico delle spese per i funerali

In Ecuador, per sopperire alle carenze dello Stato, le ONG sono in prima linea fornendo aiuti ai più vulnerabili, a coloro che da sempre hanno vissuto alla giornata. A causa della limitata libertà di movimento, la mancanza di accesso ai presidi medici, l’impossibilità di continuare le proprie attività di sussistenza, queste persone sono colpite ancor più duramente, oltre ad essere maggiormente esposte alla letalità del virus. In molti casi si tratta di famiglie numerose, con casi di violenza e problemi sociali di convivenza, che improvvisamente si trovano costrette a vivere insieme in minuscoli spazi vitali. Una tra le tante associazioni attive in Ecuador è ENGIM, la quale ha lanciato una raccolta fondi di emergenza a beneficio di 100 famiglie, appartenenti ai progetti educativi, di sviluppo locale e conservazione ambientale dell’associazione, che, però, ora faticano a dar da mangiare ai propri figli e a mantenerli in luoghi protetti. Lo scopo è, appunto, quello di distribuire generi alimentari, medicinali e strumenti di protezione, difficilmente reperibili nelle loro zone di residenza. Un bel gesto per ridare luce a chi non ne vede.

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