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Se la Cina fa shopping in Europa
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Il primo ministro della Repubblica Popolare Cinese Wen Jiabao incontra in Italia e in Europa i vertici istituzionali, in un clima tanto cordiale quanto inconcludente. Intanto, attraverso la Cosco, multinazionale controllata dal governo, la Cina “compra” per 35 anni la gestione di una parte del porto del Pireo in Grecia mettendo così simbolicamente piede in Europa secondo lo schema già sperimentato in Africa. Ma i rapporti economici tra la Cina e le potenze occidentali sono più complessi e contraddittori come testimonia la questione dello yuan. La dirigenza cinese vuole mantenere svalutata la propria moneta per garantire la crescita e la pace sociale interna comunque sempre a rischio: emerge così l’atavica paura cinese per la disgregazione dello Stato che va mantenuto unito anche a costo di generalizzate repressioni del dissenso.
In mezzo all’indifferenza generale dei mezzi di comunicazione italiani lo scorso 6 ottobre ha fatto tappa a Roma il primo ministro della Repubblica Popolare Cinese Wen Jiabao, reduce da un tour europeo di notevole importanza. Wen veniva ufficialmente per inaugurare l’anno della cultura cinese in Italia ma l’obiettivo era quello consueto: gli affari. O meglio lo shopping. Gli stati europei, maggiormente colpiti dalla recessione, diventano un terreno favorevole agli imprenditori “patrioti” (così vengono chiamati i dirigenti delle multinazionali controllate dallo Stato cinese) che notoriamente non badano a spese e pagano in contanti. In questo modo la Cina non solo impone la sua sfera di influenza sull’Africa con una accorta politica che ha come uno degli aspetti fondamentali quello di costruire a basso prezzo grandi opere e infrastrutture per poi gestirne l’utilizzo per un periodo di tempo più o meno lungo. Non si contano ormai i porti africani in un certo senso controllati dai cinesi che li sfruttano come base di appoggio per un traffico marittimo in impetuosa crescita.
La Cosco, impresa controllata interamente dal governo della Repubblica popolare, è il sesto colosso mondiale della navigazione commerciale con una flotta di circa 550 navi basate su oltre 100 porti. Protagonista di alcuni incidenti (come quello nella baia di San Francisco nel 2007) e di disastri ambientali (nel 2010 la perdita di petrolio da una nave della Cosco danneggiò la Grande barriera corallina a nord est dell’Australia), l’azienda ora sbarca in Europa comprando per 35 anni una parte del porto del Pireo ad Atene, mettendo in grande agitazione i sindacati portuali. Simbolicamente la Cina comincia da qui un nuovo rapporto con il Vecchio continente, rovesciando il passato coloniale, durato poco ma portatore di grandi danni al popolo e alla cultura cinese. In realtà, al di là di una retorica che narra le meravigliose opportunità dei rapporti con la Cina mettendo tra parentesi non solo la questione dei diritti umani ma dimenticando anche i risvolti economici della situazione. L’Europa fatica così a rapportarsi con il gigante asiatico.
Un altro aspetto fondamentale delle contraddittorie relazioni tra la Cina e il mondo riguarda il valore della moneta cinese, lo yuan. Da tempo le altre potenze industrializzate chiedono a gran voce una rivalutazione dello yuan che ora viaggia al di sotto di circa il 20% rispetto al suo reale valore di mercato. Ciò comporta molti vantaggi competitivi alla Cina: i prodotti esportati sono molto più economici e quindi acquistano sempre maggiori quote di mercato in tutto il mondo; quelli importati (soprattutto risorse energetiche) costano di più ma la Cina riesce ugualmente a procurarseli a un costo relativamente basso. Questo scenario mantiene a un livello molto elevato la crescita economica cinese, i posti di lavoro interni e quindi la pace sociale, vera ossessione della dirigenza popolare. Wen giustificava proprio per questo il suo ostinato diniego alla rivalutazione dello yuan: “se la Cina dovesse sperimentare agitazioni di carattere economico e sociale, sarebbe un disastro per il mondo intero”. In queste parole si riscontra l’implicita ammissione della precarietà di una società in enorme espansione ma costantemente esposta al rischio di sperequazioni e di tensioni crescenti e diffuse. Vale la pena ricordare, citando un dato che sappiamo dire veramente poco della concreta situazione di un paese ma che comunque resta significativo, che come reddito pro capite la Cina si collocava secondo le stime dell’Fmi, nel 2008, con 3315 dollari all’anno, intorno al centesimo posto superata da Armenia, Giordania e Ecuador. Alcuni analisti sottolineano queste cifre evidenziando la fragilità dello sviluppo cinese. Va da sè che questo dato moltiplicato per 1,3 miliardi di persone porta la Cina al terzo (o forse secondo) posto nell’economia mondiale e che il suo modello di crescita influenza in modo massiccio la lotta all’inquinamento globale. Ma le sacche di povertà e di disagio denotano ancora la stragrande maggioranza del paesaggio cinese. Di qui la possibilità del divampare di scontri.
In tutta la sua millenaria storia la Cina ha cercato in ogni modo di mantenere la propria armonia e unità contro spinte disgregatrici sempre presenti e per lunghi periodi egemoni. Questa mentalità sedimentata, unita a un acuto nazionalismo e da una ideologica allergia al dissenso, è forse la causa più profonda del clima repressivo di questi anni testimoniato dalle scomposte, quasi isteriche reazioni del governo cinese a seguito del Nobel per la pace assegnato a Liu Xiaobo, e dai brutali metodi utilizzati in Tibet.
Piergiorgio Cattani
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