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Turchia: tra il Medio oriente e l'Europa, nel segno dell'ambiguità
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In questi ultimi mesi il quadro politico internazionale vive una sorta di sospensione in attesa di qualche improvviso evento capace di rimescolare le carte. La grande crisi economica scoppiata nel 2008 non è stata superata anzi solamente adesso si cominciano a intravedere costi sociali: nei prossimi anni saranno invece le spinte inflattive e la tenuta dei conti pubblici a incidere a livello statale e globale.
Tuttavia non si può dire che la crisi abbia stravolto le tendenze consolidate nei rapporti di forza internazionali: gli Stati Uniti e la Cina mantengono la loro posizione egemonica; altri grandi paesi come l'India o il Brasile continuano il loro cammino di crescita; il Medio Oriente resta una polveriera senza possibili alternative alla costante tensione; l'Europa arranca a trovare un proprio ruolo sullo scenario mondiale.
Resta aperta la questione del nucleare iraniano: un possibile intervento militare israeliano per allontanare il regime degli Ayatollah dal possesso della bomba (eventualità molto temuta anche dei paesi arabi spaventati dall'Iran sciita sempre più potente e aggressivo) è sempre dietro l'angolo e potrebbe essere la causa scatenante di un conflitto dagli esiti imprevedibili. L'Occidente, ormai rappresentato a livello operativo e politico da una Alleanza Atlantica sempre più in crisi di identità e anche di fondi, è impantanato nella guerra in Afghanistan ormai arrivata a un punto morto in cui è impossibile una vittoria sul campo e lontanissima una soluzione politica. Per il resto tutto sembra fermo perché i principali stati dell'Alleanza sono impegnati sul fronte interno.
Eppure proprio un paese chiave della Nato, la Turchia, è al centro del più importante cambiamento di sistema degli ultimi decenni, cioè il ritorno della Repubblica fondata da Ataturk (basata su una ferrea laicità, sulla forza dell'esercito, su una adesione convinta alla politica occidentale tanto da essere uno dei membri strategicamente più importanti dell'alleanza) a posizioni definite da più parti come “neo-ottomane". Con questo aggettivo si intende l'evidente tendenza della dirigenza turca a immaginare che il loro paese possa recuperare un ruolo guida di tutto il mondo islamico a cominciare dal vicino oriente.
Non è un caso che per accreditarsi in questo senso la Turchia abbia voluto entrare sempre di più nel vischioso ginepraio del conflitto israeliano-palestinese/arabo, un palcoscenico adattissimo per accaparrarsi l'attenzione e la simpatia nel mondo musulmano. Da tempo il governo Erdogan la nozione aveva cambiato passo in questo quadrante senza che Israele o gli Stati Uniti avessero compreso la portata del cambiamento.
Ai tempi di Bush la Turchia cerca di mediare infruttuosamente tra Gerusalemme e Damasco, sdoganando quel Bashar el Assad allora interdetto dalle diplomazie occidentali. Poi nei mesi scorsi Ankara entra con prepotenza nel caso del reale iraniano trattando insieme con il Brasile direttamente con Ahmadinejad e irritando i partner della Nato nel voto contrario alle sanzioni approvate Consiglio di sicurezza dell'Onu con l'accordo dei grandi.
Di queste ultime settimane è la quasi rottura con Israele in seguito del sanguinoso blitz contro la flottiglia della pace al largo di Gaza: il discorso del primo ministro turco dopo la vicenda è stato di un'estrema durezza, con accenti quasi apocalittici. Questi tre esempi possono bastare per capire che la Turchia non vuole più essere l'avamposto americano a ridosso del mondo arabo, non vuole più attendere ma ritiene che sia venuto il momento di agire da protagonista su vari quadranti.
Se in ogni incontro con le diplomazie europee la Turchia ripete di voler a tutti i costi concludere positivamente il processo di adesione all'Unione, a bagnomaria da anni, sembra però che Ankara sia interessata ad avere un rinnovato ruolo nei Balcani proprio in nome dell'antica dominazione ottomana. Mossa intelligente e significativa è stata la presenza di Erdogan alle commemorazioni dei 15 anni dal massacro di Srebrenica in Bosnia (nel quale le milizie filo serbe assassinarono 8000 civili musulmani bosniaci): mentre tutti i leader dell'unione europea erano impegnati altrove la Turchia si presentava nella duplice veste di tutrice delle minoranze islamiche e di sostenitrice dei diritti umani dimenticati dall'Europa.
È proprio il fronte dei diritti umani però a essere la cartina di tornasole per il cammino intrapreso dalla Turchia: la lotta contro gli indipendentisti curdi costellata di scontri armati ma anche di costanti violazioni dei diritti anche dei bambini; la questione del genocidio armeno; il problema dell'occupazione di una parte di Cipro. E soprattutto il fronte interno: alcune libertà religiose tutelate solamente sulla carta, le difficoltà per i giornalisti, un sistema giudiziario ancora imperfetto. Forse si può capire la strada intrapresa dalla nuova Turchia guardando dentro lo Stato piuttosto che nella sua politica estera: fino ad oggi prevalgono l'ambiguità e l'oscillazione tra modernità e restaurazione.
Piergiorgio Cattani
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