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Obama, una rivoluzione "a parole"?
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La vicenda dell’assalto israeliano alla nave dei pacifisti che voleva attraccare a Gaza, con la conseguente rottura dei rapporti diplomatici tra Israele e Turchia (che produrrà un cambiamento di scenario su tutta la regione), segna un grave problema per l’amministrazione americana e spinge ad interrogarsi più in generale su tutta la politica di Obama.
Gli Stati Uniti restano irrevocabilmente alleati di Israele anche se mai come oggi le distanze tra Netanyahu e Obama sono grandi: tuttavia sulle questioni principali si mantengono una strana afasia e un sostanziale stallo diplomatico, pericolosissimo per quell'area del mondo dove una scintilla accende la miccia. Volenti o nolenti Gaza resta la questione da risolvere il più urgentemente possibile; non si vedono tuttavia soluzioni immediate.
Ma guardiamo oltre. Da più parti ci si comincia a domandare se il “sogno” obamiano sia già finito e se invece stiamo vivendo una stagione di pericolosa bonaccia rispetto alle iniziative di cambiamento che molti si aspettavano dal giovane presidente afro-americano. Proprio questa attesa, incrementata dagli intriganti simbolismi a cui la sua figura si presta e da alcuni premi internazionali dati “sulla fiducia” (in primis il premio Nobel per la pace), ha finito per impedire un giudizio ponderato su questi mesi di Obama alla Casa Bianca.
Obama superstar, Obama criminale, come recentemente affermato da Gino Strada, Obama al centro della scena con molte difficoltà di dare un giudizio equilibrato sul suo operato. Certamente esistono molte ambiguità e contraddizioni, in politica interna ed estera, ma sarebbe sbagliato credere in gesti rivoluzionari capaci di cambiare da un giorno all’altro la situazione: spesso non ci si rende conto che già dare l’avvio a riforme bisognose di anni per dimostrare la loro incidenza e il loro respiro significa lasciare una traccia positiva.
A livello interno Obama ha dato il via a due riforme molto importanti: quella sulla sanità (che secondo gli standard del welfare europeo potrebbe sembrare minimale rispetto al potere delle assicurazioni ma che negli Stati Uniti è l’esito di una battaglia quarantennale) e quella sulla finanza di Wall Street, arrivata dopo la crisi ma comunque mirata a combattere le speculazioni, i monopoli e gli intrighi finanziari.
Rimangono punti controversi in cui la volontà presidenziale, spesso molto determinata a parole ma incline nei fatti al compromesso al ribasso, ha ceduto a svariate pressioni: la chiusura del carcere di Guantanamo, come denunciato da Amnesty, è rimandata per nuovi cavilli burocratici; il governo americano non ha apposto la sua firma al trattato sull'abolizione delle mine antiuomo; la frontiera tra USA e Messico è sempre più militarizzata con il recente invio di 1200 uomini dell’esercito. Comunque la tendenza nell’ambito dei diritti umani e di cittadinanza è esattamente opposta a quella di Bush, cioè quella di garantire maggiore attenzione ai diritti: la nomina di due donne come giudici della Corte suprema (un organo di cui spesso si ignora la fondamentale importanza) va in questa direzione.
Sicuramente ciò che Obama incarna è la positività della società multietnica vista come fonte di opportunità. In un intervento tenuto al Festival dell’Economia di Trento il politologo Robert Putnam ha detto: “Obama rappresenta ciò che la società americana ha sempre fatto in passato: superare gli ostacoli creati dalle differenze portate sul suolo statunitense dalle successive ondate migratorie. Obama non solo è biologicamente una sintesi di diversi gruppi etnici è anche una persona che cerca i nessi che le persone possono avere in comune. Il problema dell’integrazione delle diversità non è risolto neanche negli USA”.
A cavallo tra la politica estera e quella interna resta il fondamentale testo sulla sicurezza, la "National security strategy”, presentato qualche giorno fa che può essere letto come un manifesto per le azioni future. Ebbene qui il presidente dimostra una grande innovazione: piuttosto che sparare subito sui nemici esterni (Stati canaglia, terroristi...) si parla di nemici interni tra i quali ci sono certamente individui pronti ad attentati in nome del radicalismo islamico ma anche problemi come il deficit o le lacune del sistema dell'istruzione. I
noltre sono tenute in grandissima considerazione le minacce dei cambiamenti climatici e della dipendenza americana dal petrolio. E poi il multilateralismo, la lotta contro la proliferazione nucleare e il pensionamento della formula “ guerra globale al terrorismo”, usata ancora da qualche politico italiano, sostituendola con “operazioni di emergenza all’estero” (Overseas Contingency Operation). Non si usa neppure più l’aggettivo “islamico” per identificare l’estremismo che ha portato all’11 settembre: la rivoluzione può iniziare anche dalle parole.
Piergiorgio Cattani
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