www.unimondo.org/Notizie/Oltre-la-diplomazia-delle-pacche-sulle-spalle-117996
Oltre la diplomazia delle “pacche sulle spalle”
Notizie
Stampa
Quando si parla di diplomazia è quasi spontaneo un senso di repulsione e di sfiducia. Sappiamo ormai quanto di artificioso ci sia nel gioco diplomatico che da sempre accompagna la storia dell’umanità e che non ha certo portato alla capacità di risolvere i conflitti in modo pacifico. La diplomazia può essere solamente la camera di compensazione di rapporti di forza che si generano altrove e si stabiliscono attraverso la prosperità economica e la capacità militare. Eppure soltanto attraverso questa via, fatta per lo più di parole, incontri e discussioni, si giunge ad accordi di cooperazione, a pacificazioni dopo anni di violenze, a ipotesi di sviluppo basate su una logica di crescita globale piuttosto che su di uno sfruttamento unidirezionale.
È chiaro che l’esempio più alto di diplomazia dovrebbero essere le Nazioni Unite, il consesso in cui ogni Stato teoricamente conta come gli altri (anche se il diritto di veto dei 5 membri permanenti stride con il principio di uguaglianza) e in cui si dovrebbero risolvere le controversie attraverso la ragione e la giustizia e non attraverso le armi. Durante la Guerra fredda l’ONU è stato praticamente paralizzato dal bipolarismo USA-URSS poi, nei turbolenti anni novanta, ha visto perdere credibilità nei casi della guerra nei Balcani oppure nel genocidio ruandese. Poi è venuto Bush jr. con la sua "guerra preventiva”, il suo unilateralismo, la sua “alleanza dei volonterosi” e il cui ambasciatore all’Onu era John Bolton famoso per dichiarazioni di questo tenore: “Il Segretariato a New York è un edificio di 38 piani. Se oggi perdesse dieci piani, non farebbe alcuna differenza. L’Onu è una delle organizzazioni intergovernative più inefficienti che esistano”. Ma le Nazioni Unite restano fondamentali anche se hanno bisogno di riforme e sono, per citare una definizione di Giovanni Paolo II, "il centro morale, nel quale tutte le nazioni del mondo si possano sentire a casa". Ed è proprio sulla questione dell'autorevolezza morale e politica che si gioca il successo o il fallimento di ogni tipo e di ogni livello di diplomazia.
Probabilmente è proprio la carenza di autorevolezza e di credibilità dei principali attori internazionali a segnare le difficoltà in cui versa la diplomazia. A questa debolezza si è risposto attraverso la progressiva sostituzione degli incontri bilaterali o multilaterali tra Stati, basati su di una estrema formalità (questo invece vale ancora forse con la Cina popolare) con una diplomazia informale, personale, da “pacche sulle spalle”.
Inutile dire che il teorico e il campione di questo tipo di rapporti internazionali è Silvio Berlusconi, una macchietta per tutto il mondo, ma che però ha trovato terreno favorevole nell’andazzo generale. Bush che guarda negli occhi Putin e riconosce in lui un sincero democratico è parallelo al nostro primo ministro che con lui va in dacia o al mare nella villa sarda, per concludere lucrosi (e privati) affari. All’interno dell’ambasciata americana a Roma l’ex ambasciatore Ronald Spogli ha voluto la creazione di un locale per degustare il vino, perché “una cantina può fornire l’occasione per riunirsi, per parlare di cose importanti e avere conversazioni proficue in un’atmosfera rilassante e in una maniera creativa”.
Gli omaggi alla tenda di Gheddafi, con la scandalosa visita in Italia dell’anno scorso, le barzellette che hanno contagiato altri leader europei, le scampagnate che caratterizzano i vertici G8 o G20 vedono Berlusconi protagonista, insuperato millantatore di una diplomazia più “moderna ed efficiente” ma che per ora non ha portato grandi risultati. L’amicizia, il buon umore, le trovate pubblicitarie, la politica spettacolo sono ormai gli ingredienti fondamentali di incontri tra leader mondiali che di solito lasciano soltanto una foto ricordo. Le decisioni vengono prese in modo sempre più informale, attraverso contatti fluidi, simpatie e antipatie (si veda anche il rapporto Obama Netanyhau, influenzato dal pessimo rapporto personale dei due leader): tutto nell’illusione di una maggiore funzionalità. D’altronde anche i pletorici vertici convocati per risolvere questioni molti urgenti falliscono quasi sempre come accaduto al Vertice di Copenhagen sui cambiamenti climatici.
Esiste però un altro tipo di diplomazia, quello rappresentato dagli attori non statali, in primis le ong, che raccolgono sempre più consensi proprio per merito di una autorevolezza costruita nel corso dei decenni di vita. La loro influenza si esplica solamente nella capacità di persuasione, di denuncia e di esortazione: poi sono ancora gli stati a fare il bello e il cattivo tempo. Questa forse più che delle pacche sulle spalle è l'era della diplomazia flessibile in cui organizzazioni internazionali, cooperazione tra regioni, ong, chiese e associazioni religiose (che si sono riunite a Winnipeg il 21 giugno per il World Religious Summit 2010, persino iniziative di singoli (l’epoca di internet e dell’effettiva globalizzazione delle comunicazioni rende per esempio i blog formidabili strumenti per incidere a livello planetario) possono collaborare per un nuovo tipo di relazioni internazionali.
Piergiorgio Cattani
Articoli precedenti dello stesso autore:
- Grandi laghi che muoiono
- La battaglia del Nilo
- Palestina: l'economia si muove, per l'indipendenza tutto rimandato
- Il deserto messicano: la faccia triste dell’America
- Asia centrale ex Sovietica: acqua e energia in conflitto
- L’infinita crisi del Belgio
- Iran: la repressione non ferma le proteste
- Obama, una rivoluzione "a parole"?
- Etiopia e Eritrea: Meles e Isaias, due amici-nemici sempre più simili
- Saharawi: il popolo senza patria del deserto e l'ambiguità europea