La Cina: una casa per 56 minoranze etniche

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Quando si parla di Cina è doveroso accennare alle sfumature etniche che colorano il suo territorio. Un’enorme fetta della torta demografica di 1.351 miliardi di abitanti – circa il 91% – è di etnia Han e il resto è frammentato in cinquantacinque minoranze etniche. La provincia che ospita la maggior parte di esse è lo Yunnan dove abitano ventisei popoli – compreso quello maggioritario Han

Ognuno ha origini storiche differenti. Il succedersi d’imperi, conquiste, invasioni e altalenanti relazioni con i vicini Birmani, laotiani e thailandesi, hanno formato nei secoli il variopinto melting pot di questo territorio. Ognuno si diversifica in costumi, usi, riti e religioni. A parte qualche gruppo mussulmano, quasi tutti gli altri sono di confessione buddhista o taoista. Bai, Yi, Naxi, Yao, Lishu, Zangzu (tibetani), l’elenco è lungo. Personalmente ho conosciuto il primo fra quelli appena citati, che prenderò come esempio per spiegare come ognuno conserva il proprio status fra passato e modernità.

I popoli Bai vivono nel distretto della città di Dali, un tempo l’antica capitale del regno Nanzhao sotto il quale si sono unificati ­– VIII e IX Secolo –. Oggi i rituali religiosi hanno perso l’influenza buddhista Mizong Azhali (dal sanscrito maestro o saggio) che li distingueva, per essere diventati una richiesta di protezione per la preservazione della cultura locale, rivolti principalmente alla divinità Bai Benzhu. Ad esempio una delle antiche cerimonie per eccellenza – il Keyi – è stata persa e rimpiazzata con altre pratiche che pregano le stesse divinità, ma con canti e riti leggermente diversi. Ciò che è rimasto intatto invece è l’arte: musica e scultura sono le espressioni di questo popolo. Le melodie buddhiste o taoiste cantate fin dall’antichità nelle caverne, oggi rivivono nei festival che riuniscono ogni Bai dello Yunnan. Nonché nelle colonne sonore nazionali, ­come ad esempio quella del film “Five Golden Flowers” o della nota serie TV “Talk about dance by dancers”. L’arte che distingue i Bai è indubbiamente la scultura del legno e della pietra. L’architettura invece è unica nel suo genere, conosciuta come Ouyang, la tipologia di abitazione Bai è quella che s’incontra attraversando i paesi del tratto centrale della Via del tè.

La Repubblica Popolare cinese riconosce tutte e cinquantasei le etnie in una più grande “Etnia cinese” “Zhonghua Minzu”. Non si può parlare di convivenza in Cina senza guardare anche ai suoi grandi limiti. È di qualche giorno fa infatti la notizia dell’ennesima immolazione di un monaco tibetano per i limiti – appunto – posti alla sua possibilità di espressione. Una convivenza storicamente conflittuale – non solo quella con i tibetani – di cui oggi le vibrazioni portano ad instabilità sociali diffuse, e che dovrebbero trovare la loro conciliazione attraverso le norme della Costituzione. Pechino è contro l’assimilazione e a favore di una “libertà nello sviluppo e determinazione di ogni etnia”, armonizzandosi in questo modo con il pensiero sovietico socialista. Una sfida tanto attuale quanto delicata è la capacità futura dell’azione politica di implementare una buona governance di diritti per edificare un tetto pacifico e non una prigione per le cinquantasei etnie presenti, mantenendo coeso un paese che nel passato non ha mai vissuto una unità territoriale tanto estesa. Questo è un esempio pacifico di come culture diverse riescono a conservare intatta una mappa di venticinque minoranze appartenenti ad una sola provincia, mantenendo il proprio status, divulgandolo nel proprio paese e nel mondo.

Francesca Bottari

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