Un posto che ancora non c’è: l’isola di Weizhou

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Come un’oasi nel mare prospiciente Vietnam e Cina, Weizhou è la più grande isola vulcanica cinese, anche se si estende soltanto per poco più di quaranta chilometri quadrati. Si trova nella provincia del Guanxi, a cento e venticinque chilometri dalla terra ferma, precisamente dalla città di Bei Hai, un’ambita meta turistica della classe media cinese, insieme all’isola di Hai Nan.

I mari cinesi non attirano i turisti occidentali che non trovano in essi i classici paesaggi tropicali caratterizzati da spiagge bianche, palme e acque cristalline. Inoltre il cinese vive il mare in modo nettamente differente dal nostro. Alla base non ci sono spiegazioni sociologiche ma prettamente culturali – anche se da sempre questo popolo si autopercepisce come “continentale” non per questo vede il mare come qualcosa che separa ­–.

Quando arrivi a Weizhou l’aria che si respira conserva un profumo famigliare come lo sono le famiglie di pescatori che ti sorridono, t’invitano ad assaggiare i prodotti locali, ti raccontano la loro quotidianità: se contraccambi la gentilezza, rischi di perdere il controllo sugli inviti a cena per il resto della permanenza.

Sebbene oggi l’isola sia cinese, in passato Vietnam e Francia hanno influenzato il territorio. Il primo costruendo templi e la seconda edificando – 1853 – una chiesa in stile gotico, ancora adesso considerata luogo sacro in cui alcuni abitanti liberamente praticano il loro culto cristiano.

Il turismo è un business appena nato: quello cinese ha qualche anno di vita e quello straniero deve ancora arrivare. Xiao Lan, isolana trentenne che gestisce una piccola guest house, mi ha aperto le porte dell’isola, portandomi di famiglia in famiglia ad ascoltare i racconti di tre generazioni nate e cresciute qui.

Sorto circa quaranta milioni di anni fa dalla collisione dell’emisfero europeo con quello indiano,questo vulcano conserva zone morfologiche differenti tra loro che giungono fino al mare: si trova così qualche spiaggia di sabbia nera, siti naturali dove irregolari pietre, incontrando il mare, formano un terreno lunare, e altre spiagge coperte di sabbia chiara dove l’alternarsi delle maree lascia ogni giorno una quantità incredibile di pezzi di coralli.

L’economia gira attorno ai coralli – appunto – e alla pesca. Ogni giorno Mei Gu, suo marito e il loro bue, vanno di spiaggia in spiaggia per raccogliere i resti delle preziosi organismi marini che poi rivendono a chi ne farà collane o altri souvenir. Al calar del sole li vedi avvicinarsi a riva e camminare nel mare fin dove possono. Sulle loro spalle un bastone con appesa una lunga rete che tirano come se fosse una tenda tenendola sempre sott’acqua. Passano dalle due alle tre ore immersi nel mare buio e poi ricompongono la rete piena di pesci ancora vivi. Al mattino, prima di ripartire con carro e bue, vanno al porto per vendere il pesce che nel tragitto propongono ai turisti che incontrano.

La zona del piccolo porto e del mercato è decisamente sporca. Immondizie, ratti e resti di qualsiasi cosa galleggiano nell’acqua o stagnano ai bordi della strada. Qui il mare e la sua baia sono tremendamente inquinati, ma formano un palcoscenico perfetto per ammirare la vita e ascoltare le storie di generazioni di pescatori. Seduti all’ombra di mucchi di reti e immondizie, di ritorno dall’uscita notturna, passano il loro tempo giocando a carte su tavole di marmo con mosaici che ritraggono il volto di Mao Ze Dong. Il leader comunista si trova impresso sulle pareti di molti soggiorni, è appeso ai portachiavi di motorini e, come in tutta la Cina, è stampato sulle banconote di qualsiasi taglio. Nonostante Weizhou abbia vissuto in modo praticamente autonomo e staccato dalla terra ferma, l’influenza maoista ha attecchito ed è ancora viva come in molte zone di questa grande nazione. Attraverso le parole degli isolani innamorati del “grande timoniere”, si comprende quanto può essere diversa la storia a seconda della mano che la scrive o della voce che la racconta.

I visi autoctoni bruciati dal sole contrastano con quelli bianchi di turisti protetti da vestiti ed ombrelli. Durante il giorno il mare è vuoto, nessuno vive la spiaggia sdraiato a prendere il sole, se non di primo mattino o tardo pomeriggio per ammirare la luce dell’alba e del tramonto. Tutti muniti di cellulari e macchine fotografiche, gli scatti che immortalano si ripetono: spalle al mare e fotografia con salto, sguardo all’orizzonte e braccia alzate per tenere il sole fra le dita, mani agli estremi di grandi cappelli e un sorriso rivolto all’obbiettivo. Tutti chini a caccia di conchiglie e coralli, in pochi fanno il bagno, ma tutti si fermano a contemplare quel punto dove cielo e mare diventano una cosa sola.

In ogni angolo dell’isola ti senti diversa dalle persone e distante dalle loro abitudini. Ti metti in fila ai loro usi e mettendo da parte i tuoi per non alterare l’equilibrio di un posto in armonia da generazioni. Immancabilmente però le domande di chi incontri, che conservano tutte le stesse curiosità verso la tua cultura, la tua storia, la tua persona, riportano a galla chi sei – o chi pensi di essere ­–. Un comportamento inizialmente invadente ed insistente per via della irrefrenabile voglia di scoprire qualcosa in più del mondo, ma che dopo una prima conoscenza si rivela ospitale e accogliente, proprio come questo popolo e il suo paese che, nonostante i tumultuosi cambiamenti degli ultimi decenni, conserva ancora uno spirito profondamente confuciano.

Francesca Bottari

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