Pechino: negli hutong l’anima dell’antica capitale

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PECHINO - Poco prima della cittadina cinese di Erlian la Mongolia rallenta per cedere il testimone alla Cina. Sulla via che unisce la capitale mongola a quella cinese il tempo sembra essersi fermato in un’unica stazione. Un tragitto lungo, ma scaldato dall’armonia arida di un deserto che incontra modesti rilievi, qualche cammello e cittadine cinesi apparentemente disconnesse fra di loro. Il nipote di Gengis Khan, Kublai Khan, ne seguì i rilievi giungendo fino a Pechino, la oltrepassò e proclamò l’impero della dinastia Yuan (1271-1368), la prima di etnia non Han (cinese). Nel 1272 la capitale voluta a Pechino dal Khan, portava il nome di Dadu (Grande capitale). Questa storia che si perde nei secoli ha tuttavia lasciato tracce nel centro della città.

Gli Hutong sono i vicoli centrali noti al mondo intero come quel poco che resta della vecchia Pechino. La parola ha origini mongole e rimanda a due significati nella lingua dei Khan: chi sostiene voglia dire “pozzo” chi invece “paese”. Un viaggiatore attento può ritrovare e percorrere gli Hutong che, nonostante la generale distruzione di questi vecchi quartieri, rimangono non solo nostalgica vestigia di un tempo passato, ma pure vivo e animato spicchio di città. In essi abitano circa 50 mila pechinesi. Sono piccole viuzze contrassegnate dal grigio dei mattoni e dal rosso delle porte di case basse che si aprono – in alcuni casi – su giardini inaspettati.

Le lunghe e strette vie segnano la città principalmente da est ad ovest, mentre meno frequenti sono i collegamenti nord-sud. Questa disposizione non è casuale, ma rispecchia l’antico insegnamento del Feng Shui, secondo il quale vento (Feng) e acqua (Shui) sprigionano la loro preziosa energia diramandosi da levante a ponente, affinché ogni ingresso possa essere illuminato dal sole per tutto l’arco di una giornata, ed ogni porta tenuta distante dalle energie negative provenienti dal nord. Sulla bicicletta vento e acqua silenziosi mi conducono. Da est a ovest ripercorro lo spirito con il quale queste vie sono state pensate, il pensiero a tratti ritorna alla Mongolia, nel paese dove questi due elementi plasmano anima e corpo del territorio, nella cultura da dove i Khan hanno portato i primi germogli urbani che oggi il mondo chiama Hutong.

Ho incontrato Charlotte, una guida cinese che opera per tour-beijing e, secondo quanto riferitomi, fino al 2000 le preziose e strette vie erano accuratamente protette e conservate. Oggi la maggior parte di queste servono ai molti tentativi commerciali di presa turistica, anche se d’altra parte, rimangono comunque un irriducibile rifugio per molti pechinesi. Molti di quelli rimasti, circa 300, sono parte dei 6000 che si contavano alla fine dell’ultima dinastia Qing (inizio Novecento).

Gli Hutong sono identità e socializzazione, storia e presente, vite e genealogie, sono vecchia arte geomantica cinese e nuovi lussuosi edifici (in centro vicino al lago Qinghai sono sorti nuovi Hutong che, simili a villette a schiera, ricordano nei modi quelli antichi). Esulando dal giudicare su come è stato distrutto questo tessuto urbano– anche se è triste pensare alle conseguenze umane e urbane di questo circolare processo di demolizione e ricostruzione –, ripercorrendo attentamente queste vie si percepisce come queste e i loro abitanti si richiamino reciprocamente. È preziosa l’osservazione degli Hutong attraverso le abitudini degli abitanti e la percezione di questi ultimi (personalità, usi e costumi) dalla loro quotidianità circoscritta all’interno degli spazi che di Feng Shui ne fecero virtù (vedi immagini di storie di vita e Hutong).

L’uscita dalla fila turistica attorno alle principali “viuzze” permette di cogliere questa dialettica in cui, nonostante il generale imborghesimento di fasce sociali un tempo povere, uomo e spazio urbano assieme s’identificano, mantenendo vivo il passato e perpetuandone dinamiche in grado di definire nel tempo particolari identità – cinesi in questo caso come giocare a Majong fuori dalla porta di casa con il vicinato –. Quest’unicità di Pechino è uno specchio di sentimenti comuni e condivisi, di città che evolvendosi rimpiangono tradizioni sociali e urbane d’un tempo, riadattandosi ad esso e cercando di non veder svanite consacrate tradizioni. Concludo ed esulando da storia e progresso, il cuore della capitale cinese non vive nel vuoto della meravigliosa città proibita, ma nel vivace rumore che giorno dopo nette fuori esce dagli Hutong.

Francesca Bottari

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