Nell’impero di mezzo, dove si incrociano viaggiatori

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Percorrendo più di 20 mila chilometri ho incontrato molti viaggiatori, più o meno tutti della mia generazione (anni Ottanta): ognuno con motivazioni diverse che però si accomunano a seconda del paese di provenienza.

Il gruppo etnico viaggiatore per eccellenza è formato dai giovani israeliani. Frequentano gli ostelli di tutto il mondo, non c’è luogo in cui non si trova un backpacker israeliano. In Cina, in Thailandia, in Brasile, in Italia, sono ovunque. Ventenni e trentenni in fuga dal proprio paese per provare una sensazione di libertà. Un esercito di giovani che vuole una pausa lontano dalla famiglia e dallo Stato per comprendere l’influenza che la leva obbligatoria ha avuto su di loro e sulle loro prospettive.

In Israele uomini e donne all’età di venti anni sono costretti ad arruolarsi. I primi per un periodo di tre anni, le seconde per un minimo di due anni – ventun mesi –. L’esercito d’Israele, mi racconta Noa, è nato nel 1948 per difendere il paese, oggi conta quasi 190 mila unità ed è uno dei più potenti al mondo, che all’occorrenza può schierare più del doppio delle forze grazie ad un numero considerevole di riservisti.

“Sto viaggiando per dimenticare i comportamenti inculcatemi, per abbandonare la sensazione di saper maneggiare un fucile o svegliarmi con il timore di incontrare qualche immigrato e dover odiarlo senza alcuna ragione”. Noa, ventisettenne, vive a Tel Aviv dove ha studiato filosofia, ed è in viaggio da tre mesi. Il nostro dialogo mi ha accompagnato fra le riflessioni più intime di una ragazza – o un ragazzo – prima, durante e alla fine degli anni di leva.

L’esercito – e continuo a citare le sue parole – “penetra ovunque, è uno Stato nello Stato. Esso non difende il nostro paese”, mi spiega, “ma lo costruisce”. Un’affermazione chiara e diretta, che non lascia equivoci nella comprensione, e condivisa fra molti suoi connazionali. Gli effetti sono una manipolazione a pieno regime e il viaggio lontano da casa è allo stesso tempo un avvicinarsi ad essa, un riappropriarsene. Allontanarsi per loro significa estraniarsi da quello che sono stati, cercare di guardarsi con occhi differenti ­– grazie alle diversità che incontrano – e cercare un modo per vivere nella loro terra, ma immuni da un’influenza militare.

Donne che a vent’anni imparano a maneggiare un’arma, ragazze e ragazzi che controllano sospettosi se palestinesi dovessero per caso varcare la soglia, giovani obbligati a formarsi con il “complesso della violenza”. Pochissimi hanno un sogno che si avvicini minimamente ad un’ambizione professionale, tutti cercano in se stessi la forza di tornare e cercare un posto dove poter esprimere la propria umanità, buona e differente da quella insegnata. Nelle parole di ognuno però c’è una grande disillusione, una tacita consapevolezza della loro impotenza davanti ad una causa simile.

Come loro ognuno di noi – e mi metto dentro anch’io – è su queste strade per imparare l’arte di “rallentare”, per non farsi sopraffare da una vita imposta e non voluta. Per comprendere ciò che si vuole e non essere un mezzo di trasporto di desideri altrui, e di conseguenza, saper agire con consapevolezza, per il proprio bene e per quello del mondo intero.

Europei che stanno imparando ad andare adagio, israeliani che cercano la libertà e cinesi che mediano offrendo caratteri differenti: silenziosi, sobri e tenaci. Molti di loro chiedono agli occidentali di insegnargli “l’arte del correre”, altri invece sono veloci, ansiosi, affamati di esperienze ma nello stesso tempo vogliono un aiuto nel trovare gli strumenti per ripristinare un mondo, il loro mondo, ormai inquinato (come sta accadendo in questi giorni nelle province settentrionali del Heilongjiang, Jilin e Liaoning) e piegato dalla frenesia. Tutti accomunati però da un’esigenza: quella di progettare un universo che sia confortevole per ognuno, oggi e domani. Spogliarsi di ego, dimenticare l’impazienza, ammettere che il proprio sogno non è un’ambizione professionale ma trovare il proprio posto – innanzitutto interiore – dove poter essere un buon essere umano, è il sentire comune fra questa gioventù cittadina del mondo.

Viaggiando nell’impero di mezzo (la Cina) che si sta riaffermando in quanto tale, nella generazione delle trasferte intercontinentali riecheggiano gli antichi insegnamenti del filosofo Lao Tzu (autore del noto Tao Te Ching). Il maestro insegnava infatti che il buon saggio è un’anima lenta e che grazie a questa speciale virtù egli saprà come progettare. Una generazione attenta alla lezione “dell’andare adagio”, alla ricerca di quel luogo confortevole che sia possibilmente a casa propria, perché ognuno – anche se potenziale pilota fin dal primo giorno di vita – se si mette in viaggio lo fa per rinnovarsi e fare ritorno con un bagaglio inestimabile, per sé e per la sua amata comunità.

Francesca Bottari

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