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Il tragico tramonto del Venezuela
Corruzione e denuncia
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Esisteva una volta un paese ricco, prospero, pieno di risorse e materie prime; la quarta economia dell’America Latina per prodotto nazionale, dove fiorivano industrie chimiche, metallurgiche, meccaniche, alimentari e agricole (caffé, cacao, tabacco, canna da zucchero, cotone, vaniglia, alberi da frutta). Certo, la voce principale, é sempre rimasta l’estrazione e raffinamento del petrolio. Grazie alle esportazioni del greggio, infatti, il Venezuela era considerata tra le economie piú ricche al mondo negli anni ‘70, con infrastrutture turistiche, cittá dinamiche e all’avanguardia. Moltissimi italiani durante la seconda parte del ventesimo secolo decisero di emigrarci (negli anni ´80 si contavano circa 400 mila persone tra italiani emigrati dall’Italia e discendenti di seconda o terza generazione, intorno al 3% della popolazione), tanto che il Venezuela a tutt’oggi rappresenta uno dei paesi a maggiore affluenza migratoria italiana, in America Latina solo dietro a Argentina e Brasile. Lo specchio di un’economia emergente, dove la popolazione cresceva e il futuro prometteva bene.
Come si é arrivati alla drammatica situazione attuale? Come si é potuta scatenare e perpetuare una simile crisi? La crisi ha risvolti economici, sociali, ideologici, ed é tanto impietosa quanto priva di speranza. Sfida la tolleranza del suo popolo, si fa beffe delle sue sofferenze e lo conduce a una catastrofe senza precedenti. Una crisi che non ha fondo né logica, se non nel comportamento mentecatto e criminale della sua classe dirigente. Non c’é neanche piu spazio per una soluzione politica, dopo il voto controverso che quest’anno ha confermato Maduro alla presidenza del Venezuela per il periodo 2019-2025, e che non é stato riconosciuto dalla comunitá internazionale. L’emigrazione venezuelana ha ormai raggiunto cifre sconcertanti. In pochi anni sono giá saliti a 2,6 milioni i venezuelani scappati dal propio paese: un numero terrificante, se si associa all’unica grande causa di questo esodo massivo: le politiche dittatoriali di Nicolas Maduro, leader del paese dal 2013, quando ricevette il testimone di Hugo Chavez, quale suo fedelissimo delfino,che aveva guidato il Venezuela dal 1999 fino alla sua morte.
Come biasimare le orde di migranti disperati che cercano rifugio nei paesi limitrofi, visto lo stato di totale squilibrio, caos, tipico delle guerre, che si vive nel paese. Dopo due decenni di «rivoluzione bolivariana», il paese é sommerso da un’iperinflazione (le stime del FMI parlano di 1.000.000 per cento nel 2018) che polverizza il potere d’acquisto della gente, una crisi migratoria di milioni di persone, quasi esclusivamente via terra, (letteralmente camminando), fame e piaghe sanitarie ovunque (due venezuelani su tre hanno perso peso per colpa della miseria) e il contemporaneo collasso dell’economia e della democrazia. Gente che muore per mancanza di trattamento medico e medicinali, malati di cancro che si son visti interrompere la chemioterapia, diabetici che soffrono per non avere accesso all’insulina, bambini senza antibiotici. Il Venezuela per quattro anni consecutivi é stato il paese con il più alto indice di miseria al mondo (2013-2016). Oggi 8 famiglie su 10 vivono sotto la soglia di povertà e lottano quotidianamente per la ricerca di cibo, spendendo in media il 90% del suo reddito per generi alimentari. Fa scioccare il fatto che addirittura la costituzione fisica dei Venezuelani, generalmente sani e robusti, si stia modificando. I bambini sono piú magri, sciupati, come a dimostrare, ad occhio nudo, gli effetti delle politiche di questo governo. Effetti che il governo si ostina a non vedere.
I sintomi della crisi erano giá noti negli ultimi anni di governo Chavez, anche se fino alla sua morte gli indicatori macroeconomici, piú o meno truccati, reggevano, soprattutto grazie al boom delle quotazioni del petrolio, che rappresentano piú del 90% del totale delle esportazioni nazionali. Il governo chavista nel 2004 aveva fissato la paritá contro il dollaro a 1,6, un tasso giá allora ritenuto irrealistico. Ció nonostante la fortuna finisce e iniziano a venire al pettine i nodi di un’economia stagnante, incapace di diversificarsi, e di promuovere investimenti strutturali. L’inflazione sale, le riserve valutarie si contraggono e il governo svaluta la moneta. Un classico visto tante volte in altrettante economie totalitarie e centralizzade. Se a questo aggiungiamo l’inesorabile fuga dei capitali dal paese, gli scontri diplomatici e la chiusura al libero mercato (certo escludendo il petrolio, che per un terzo viene sempre venduto agli Stati Uniti), l’esito é devastante. La chiusura al libero mercato significa stabilire dei prezzi “amministrati”, cioé fuori da ogni dinamica di mercato, e impedire al cambio di fluttuare liberamente, di fatto creando un’enorme discrepanza tra il cambio quotato e il cambio sul mercato nero, che inevitabilmente collassa.
Nel 2015 e 2016 il tracollo del prezzo del petrolio non può che dare il colpo di grazia all’economia del paese. I prezzi massimi imposti dal regime e i bassi investimenti acuiscono l’immobilitá economica e si assiste cosí a un crollo del PIL, unito al prosciugamento delle riserve in moneta forte. La conseguente esplosione iperinflazionistica e caduta di valore del bolivarsul mercato nero – il mercato di tutti i giorni per capirci – decretano la fine della produzione nazionale (PIL a -19% e -15% nel 2016 e 2017 rispettivamente). La maggior parte delle fabbriche espropriate e nazionalizzate non riesce piú a importare materie prime e semi-lavorati, e fallisce. Le famiglie corrono ad acquistare i pochi dollari offerti sul mercato nero a tassi di cambio sempre più alti, perché nessuno vuole tenersi i bolivares “sovrani”, ormai ridotti a carta straccia. Tutto questo, mentre il governo costringe la banca centrale a stampare sempre più banconote per finanziare il suo deficit fiscale crescente, date le minori entrate derivanti dal petrolio (per produttivitá ed esportazioni calanti, oltre al fatto che con quel petrolio Maduro ci paga i creditori cinesi e russi). Un mese fa, con un solo dollaro ci si poteva comprare in Venezuela 8,7 milioni di litri di benzina, circa lo stesso valore di una scatoletta di tonno.
La soluzione? Smettere di stampare moneta per ripagare il deficit fiscale cronico del paese, liberalizzare il tasso di cambio e porre fine all’assurdo controllo sui prezzi. Successivamente si dovrebbe ancorare la moneta nazionale a un asset solido, quale l’oro, o direttamente convertirla nel dollaro americano. Ció richiederebbe un cambio di regime, e tutto ció, come sappiamo, é pura utopia. Maduro ha eretto una dittatura militare quasi impossibile da espugnare, neppure dopo la vittoria nel 2016 dell’opposizione all’Assamblea Nazionale, o dopo il tentativo, fallito, di attacco a Maduro del 4 agosto scorso, il cui presunto colpevole é scomparso qualche settimana fa in circostanze sospette. Intanto il popolo venezuelano vive nella disperazione, come con una pallottola sottopelle che non si riesce a rimuovere. Fame, malattie, criminalitá, migrazione di massa, aggressioni a leader dell’opposizione, tutti fenomeni spudoratamente smentiti dall’elíte corrotta dominante che appoggia il regime. Come l’ambasciatrice venezuelana in Ecuador, espulsa pochi giorni fa per aver detto che Lenin Moreno (Presidente dell’Ecuador) dice il falso affermando che ogni giorno l'Ecuador riceve seimila venezuelani in fuga dal loro paese.
In Colombia, come in Ecuador, Perú, Cile, ritrovi frotte di venezuelani, spesso impiegati in lavori ambulanti, o elemosinando ai semafori, in cerca di un’opportunitá, che spesso termina in sfruttamento. Altri evitano le grandi cittá e arrivano in comunitá rurali delle quali non avevano mai sentito parlare. Tutti sono accomunati da un pensiero: nel loro paese non ci possono, né vogliono tornare.
Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.