Elezioni algerine: l’immobilismo perpetuo

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Il 17 Aprile, quella che si annunciava come la tornata elettorale più combattuta degli ultimi anni, si è risolta in una riconferma (plebiscitaria) del Presidente uscente, Abdelaziz Bouteflika. Il vecchio Capo dello Stato, fiaccato da una grave malattia, ormai impossibile da nascondere, darà vita al quarto mandato consecutivo, forte dell’81,53% dei consensi. Numeri straordinari che lasciano aperta la porta a qualsiasi tipo di dubbio o di illazione: a dispetto di essi, l’esito del voto esprime numerosi indizi di fragilità politica. Il primo, riguarda il dato dell’affluenza: un 50% degli aventi diritto, che rappresenta un decisa flessione rispetto alle precedenti elezioni. Nondimeno, sono molti i dubbi relativi alla tenuta di un sistema che riserva un ruolo tanto marginale all’opposizione. Capire le conseguenze di questo risultato (oltre le aspettative) richiede un viaggio nel cuore del potere algerino. Un viaggio dagli esiti inattesi ed in certo modo preoccupanti.

Anatomia di una vittoria. Il grande sconfitto di queste presidenziali, Ali Benflis, uomo ben inserito nelle strutture del potere nazionale, e ciononostante fermo ad un trascurabile 12,8%, si è affrettato a denunciare (via etere) il ricorso a brogli, operati (a suo dire) dell’Esecutivo e della maggioranza che lo sostiene. Una maggioranza poggiante sull’obsoleto (ma attivissimo) Fronte di Liberazione Nazionale: la forza politica che ha guidato il Paese dall’indipendenza, conseguita nel lontano 1962, ad oggi. Non v’è da stupirsi: la denuncia di irregolarità, da parte degli sconfitti, risponde a un copione consolidato, nel grande spettacolo della vita pubblica algerina. Benché non possa essere esclusa una effettiva incidenza di frodi elettorali sull’esito della consultazione, sia per ragioni legate alla dinamica del voto, sia per i dubbi margini di credibilità degli osservatori inviati dall’Unione Africana, sarebbe semplicistico attribuire a simili maneggi l’entità di un risultato come questo. Un ruolo ben maggiore è stato giocato, senza dubbio, dalla pervasività di quello che è diventato, negli anni, un vero e proprio partito-Stato, secondo solo all’Esercito in termini di controllo sul tessuto civile. Il vero candidato forte di queste, come di altre elezioni, è infatti un clientelismo fatto di sussidi, promesse di lavoro, assegnazioni di case popolari, allacciamenti elettrici. Un clientelismo che perpetua un impianto di potere a tratti asfissiante, ma ancora in grado di determinare le sorti pubbliche e private di un’intera Nazione.

Ha vinto la paura. Tuttavia, anche un’analisi di questo genere non traccia i contorni precisi di una vittoria che esprime ragioni più profonde, intimamente legate alla storia (recente) del Paese. Infatti, se ad aver perso, con la rielezione di Bouteflika, è una voglia di cambiamento che pure esiste, ad aver trionfato è stata senz’altro la paura, il timore di fare un salto nel buio, dopo una pacificazione che ha portato sollievo alle inquietudini e ai lutti di dieci anni di terrore, svoltisi all’insegna di stragi e lotte fratricide. Il Presidente infermo è certo l’immagine di una realtà che non riesce ad andare avanti, che stenta a lasciarsi dietro le spalle un passato doloroso e imbarazzante, ma è anche (e soprattutto) una figura in certo modo rassicurante, che garantisce da un ritorno (non certo impossibile) di vecchi fantasmi. Naturalmente, ora spetterà allo stesso Bouteflika, e soprattutto all’apparato che lo circonda (e lo completa), dare risposte che non rendano vane le aspettative di molti algerini. Dovranno essere messe in campo, sin dalla prima fase, riforme che ridiano voce alla fiducia nel futuro e che accompagnino un sano processo di crescita. Prima fra tutte, quella riforma costituzionale, in senso maggiormente garantistico e libertario, che è stata promessa nelle fasi più calde della campagna elettorale. Purtroppo, la riconferma degli uomini chiave del vecchio esecutivo, nelle persone del Primo Ministro Abdelmalek Sellal, del Ministro dell’Interno Ramtane Lamamra e del Ministro della Giustizia Yayeb Bélaiz, non sembra andare nella direzione di un deciso cambio di passo.

È il momento delle scelte. Al di là dei provvedimenti di breve e medio periodo, ad assumere un ruolo discriminante, in termini di stabilità e sopravvivenza dell’attuale sistema politico, saranno le scelte strategiche di fondo. In primo luogo, sul piano di investimenti che sappiano intervenire sull’annoso problema della disoccupazione giovanile, e che siano in grado di smorzare gli effetti del futuro (benché non imminente) esaurimento dei giacimenti di gas e di idrocarburi, che rappresentano la principale voce in entrata del bilancio statale: magari, puntando su progetti che valorizzino un settore turistico ancora tutto da sviluppare; o su accordi per lo sfruttamento di energie rinnovabili, che si scoprono un terreno di grande interesse per molteplici partner occidentali.

Nondimeno, sarà indispensabile avviare un percorso di riaffermazione del ruolo della politica e di parallelo “rientro nelle caserme” dei vertici militari. Un sfida difficile, ma non impossibile, a patto che la “normalizzazione” avvenga con gradualità e con le opportune garanzie per i generali. Infine, occorrerà agire sulla realtà del commercio (all’ingrosso e al dettaglio), superando un assetto ormai datato, che si basava su un patto, stretto con figure di spicco dell’integralismo algerino storico, che prevedeva un abbandono della lotta armata in cambio di una sostanziale concessione di un regime di monopolio nel settore dell’importazione e della compravendita di alcuni beni. Un accordo di tal natura, se è stato uno strumento efficace di pacificazione, portato avanti dallo stesso Bouteflika, negli anni difficili della guerra civile, sconta ora una certa stanchezza e rischia di compromettere l’indispensabile modernizzazione economica del Paese. Riuscirà un presidente infermo, espressione di un sistema altrettanto infermo, ad affrontare questioni sì delicate e spinose? Che sia possibile non è detto. Certo, è necessario. Ma non ci crediamo.

Omar Bellicini

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