“Il presidente sta bene”: quando i leader si ammalano

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Se nei regimi democratici i leader dovrebbero venir sostituiti mediante elezioni senza che l’istituzione che rappresentano subisca deterioramento, là dove invece la figura del capo emerge in maniera autoritaria o dittatoriale contano tantissimo le condizioni fisiche e di salute di chi detiene il potere. Un tempo dalla vigoria del sovrano dipendeva la fecondità della terra e la prosperità del regno; oggi in molti paesi dal fragile quadro istituzionale se il leader si ammala si diffonde veloce il panico, si moltiplicano le congetture anche perché il governo non ammetterà mai la fragilità di una guida che sembrava indistruttibile. I regimi di stampo comunista, soprattutto orientale, furono e sono segnati da una sorta di idolatria del corpo del capo: Mao e Ho Chi Minh sono stati imbalsamati come gli antichi faraoni mentre Kim Il Sung, fondatore della “dinastia” che controlla la Corea del nord, è stato nominato, alla sua morte, “presidente eterno”.

Negli ultimi anni la salute e la malattia di presidenti, primi ministri o dittatori sono diventate questioni politiche e armi per la propaganda. In questo caso tutto il mondo è paese, da Lula a Berlusconi. Chi sta utilizzando maggiormente le proprie condizioni fisiche come strumento di azione all’interno dei propri confini e a livello internazionale è il presidente venezuelano Hugo Chavez: in perenne campagna elettorale il sanguigno rivoluzionario bolivariano ha combattuto con tenacia con un grave tumore, paragonando questa difficile prova alla sua battaglia contro l’imperialismo americano, vero cancro che distrugge il mondo. Per mesi e mesi la sua salute è diventata un caso diplomatico, monitorata costantemente dai servizi segreti e dalle agenzie di sicurezza. La sua guarigione, ormai acclarata anche da chi lo aveva dato più volte per morto, è presentata da Chavez, che in ottobre concorrerà per un quarto mandato presidenziale, come una conferma quasi divina della bontà della sua battaglia.

Il fatto che poi, a differenza da altri personaggi che, dopo una vita a denigrare l’occidente e la sua cultura, finiscono negli ospedali francesi o americani per farsi curare, Chavez abbia risolto i suoi problemi in una casa di cura di L’Avana dall’amico Fidel (anch’egli ancora tenacemente attaccato alla vita e al potere nonostante l’età) aumenta la venatura anti imperialista della vicenda. Oggi anche una chemioterapia può essere un’arma da scagliare contro l’avversario.

È di questo mese invece il rincorrersi di notizie sulla presunta grave malattia che avrebbe colpito il primo ministro dell’Etiopia Meles Zenawi, ininterrottamente in sella dal 1995 e leader di un paese che sta lentamente scivolando verso l’autoritarismo. Zenawi ha partecipato al G20 del giugno scorso in Messico, ma a tutti è apparso pallidissimo ed emaciato: da qualche giorno è scomparso dalla scena, si dice perché volato in Belgio per farsi curare. Il paese intanto, oltre agli endemici problemi di carestia e malnutrizione e all’infinito conflitto della Somalia, deve far fronte a crescenti tensioni di tipo etnico e religioso. Nelle ultime settimane si è fatto più violento il confronto tra governo e minoranza musulmana (comunque più di due milioni di persone) che protesta per l’intromissione dello Stato nell’elezione dei rappresentati della comunità. la malattia di Zenawi è vista con molto timore nel paese e anche tra la gente comune, conscia che la sua possibile morte scatenerebbe una resa dei conti tra le varie componenti di quel mosaico instabile che è l’Etiopia.

Certamente la malattia è una variabile che non viene considerata da chi crede di essere immortale e di dover restare per sempre al potere. Poi quando i rovesci della storia cambiano improvvisamente le carte in tavola, molto spesso anche il corpo cede. Prendiamo il caso di Mubarak: si sapeva da tempo che il rais soffriva di cuore, ma fino all’anno scorso aveva una medicina infallibile che lo sosteneva, cioè il potere assoluto. Oggi il faraone alla sbarra sta per morire. L’elisir di lunga vita è finito.

In fondo la comune fragilità umana dovrebbe insegnarci qualcosa. Dovrebbe farci capire l’inutilità della guerra e di tanto spargimento di sangue. Quanti casi si potrebbero citare. Ne basterebbe uno. Mentre recenti notizie ci parlano ancora del presunto avvelenamento di Arafat, Ariel Sharon, ormai da più di 6 anni, giace in coma vegetativo a seguito dell’ictus che lo aveva colpito nel gennaio 2006: intorno a lui il Medio Oriente è sempre in fiamme. La sua politica aggressiva e le mille battaglie che lo hanno visto protagonista non sono più neppure un’eco per lui; nella sua condizione di disabile grave tutto è silenzio, tutto è oblio.

Forse occorrerebbe partire da qui per una analisi politica. Se la vita o la morte dei popoli dipende dalla salute o dalla malattia dei propri leader, siamo ancora a un livello molto basso di civilizzazione. Nessuno è invece indispensabile, mentre è necessario il concorso di tutti. Ancora una volta ciò che conta è costruire istituzioni giuste e umane, a livello regionale e internazionale: istituzioni solide che non hanno paura dei bollettini medici dei leader.

Piergiorgio Cattani

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