Se la Palestina è membro Onu. O quasi

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Su Gaza non piovono più bombe, su Israele non cadono più razzi. Per il momento. Poi, se tutto resta come adesso (o come gli ultimi 10 anni), ricomincerà la spirale di violenza. In attesa di un conflitto magari su larga scala. E la speranza muore. Si attendono nuovi eventi. Che non sono certamente l’annunciato ritiro dalla vita politica di Ehud Barak, oppure la riesumazione dei resti di Arafat per capire se è stato avvelenato con il polonio e neppure l’ennesime riunioni delle varie agenzie internazionali da decenni al capezzale dei due contendenti. Più significativo è il cambiamento di prospettiva nei paesi limitrofi. Anche qui però nulla è scontato. Per esempio, se in Egitto si arrivasse a una pacificazione interna con un governo in mano ai Fratelli mussulmani ma comunque non bellicoso verso l’esterno, sicuramente la situazione migliorerebbe per Gaza: il presidente egiziano Morsi potrebbe avere voce in capitolo con i dirigenti di Hamas, portandoli a miti consigli, e non potrebbe essere neppure ignorato da Israele, pena un terribile isolamento internazionale per lo Stato ebraico. Vediamo però quello che succede in Egitto. La tensione poi potrebbe esplodere anche al confine siriano, a quello libanese e in tutta la Cisgiordania. Senza dimenticare mai la questione iraniana che da un giorno all’altro potrebbe riservare inquietanti e drammatiche sorprese.

Qualcosa potrebbe cambiare proprio oggi. L’Assemblea Generale dell’Onu voterà la richiesta palestinese di adesione come “Stato non membro” delle Nazioni Unite. Un percorso – quello che dovrebbe portare alla proclamazione dell’indipendenza palestinese – che ha una storia molto lunga e che ha visto l’anno scorso una grande accelerazione, voluta dal presidente dell’Anp Abu Mazen anche per superare una certa sua irrilevanza politica. Si arriva alla giornata di oggi con un ampio schieramento di paesi favorevoli a questa richiesta palestinese. Purtroppo gli Stati europei arrivano divisi: sì da Francia e Spagna, probabile no della Germania; l’Italia abbozza, il ministro Terzi, dopo aver chiesto invano uno spostamento della votazione, deciderà di astenersi nonostante gli appelli per un voto favorevole. La Gran Bretagna potrebbe votare sì se nella dichiarazione la Palestina si impegnerà a riprendere, subito e senza condizioni, i negoziati con Israele; e soprattutto che la Palestina rinunci a far parte di alcune istituzioni dell’Onu preposte – ironia della sorte- proprio a dirimere le controversie e i conflitti. Quindi non dovrebbe partecipare alla Corte penale internazionale e della Corte internazionale di giustizia, in modo da impedire che possa tentare di processare Israele. Sembra che Abu Mazen alla fine cederà su questo punto. Il testo arrivato all’Onu potrà essere ancora limato.

La votazione avrà comunque un esito scontato e la Palestina diventerà Stato non membro. Difficile dire che cosa cambierà sul terreno. Poco probabilmente. Il voto però cade in una giornata particolare, in quanto il 29 novembre è la giornata per la solidarietà del popolo palestinese, una ricorrenza che richiama il 29 novembre 1947 quando venne varata la risoluzione che avrebbe dovuto creare i due Stati ma che invece aprì le porte alla nascita dello Stato di Israele. Anche qui però, se vogliamo leggere bene la storia, sappiamo che furono i paesi arabi ad impedire il formarsi di uno Stato palestinese, preferendo una guerra che, secondo loro, avrebbe annientato facilmente il nemico sionista. Seguirono decenni di guerra e tentativi di pace prima tra arabi e israeliani, poi direttamente tra palestinesi e israeliani: ora ritornano di nuovo in scena gli Stati arabi. In mezzo l’occidente, diviso e inconcludente.

Se è Tony Blair a condurre le trattative del famoso “Quartetto” andiamo proprio male, in quanto quando gli affari superano la politica, l’esito è soltanto un arricchimento personale, magari soltanto di prestigio, comunque ininfluente sul delicatissimo scacchiere medio-orientale. Forse però è la stessa dottrina dei “due popoli due Stati” ad essere in crisi. Altre vie non sembrano praticabili, ma se questa è sempre naufragata, non varrebbe la pena di pensarne altre? Ripercorre la storia di questa soluzione Giuseppe Franchetti per la rivista Keshet (qui disponibile in formato .doc): una semplificazione netta non porta a nulla, come non porta a nulla la chiusura nazionalista di Israele che purtroppo verrà confermata dalle elezioni di gennaio.

Urge fantasia. Che forse non può venire che dal basso. Ma i tempi saranno lunghissimi.

Piergiorgio Cattani

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