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Tony Blair: da “statista” ad agente dell’emiro
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C’era una volta il più simpatico e popolare leader laburista della storia della Gran Bretagna. Giovane e bello, facondo e innovatore, era giunto a Downing Street nel 1997 quando aveva 44 anni, al termine di una campagna elettorale trionfale alla guida del ricostruito New Labour. Si chiamava Tony Blair. La sinistra europea, a cominciare da Massimo D’Alema, era impazzita per lui, per la sua “terza via” tra laburismo e liberismo che proiettava nuovi promettenti politici direttamente nel 2000. Erano i tempi degli indici di Borsa che crescevano inarrestabili, della bolla della Net Economy, dell’interventismo umanitario, dell’arrivo della moneta unica europea. Tony aveva buone idee, voleva portare il suo paese nell’euro avvicinando l’isola al continente. Voleva coniugare sviluppo e solidarietà, capitalismo anglosassone ed economia sociale di mercato, progettando una politica estera assertiva nei riguardi dei diritti umani. All’inizio a Blair riusciva tutto, pure di comandare alla Regina Elisabetta. Attorniato da abili consiglieri e sostenuto da cantanti e intellettuali, Tony era una star.
Qualcosa si ruppe intorno al 2000, con l’elezione di George W. Bush. Soprattutto l’11 settembre 2001 fu uno spartiacque: Blair si schierò sempre più supinamente con l’alleato americano sostenendo con grandissima convinzione le più spericolate e tragiche avventure del texano con il fucile. Lo seguì in tutto e per tutto rompendo, alla vigilia della guerra in Iraq, con i più prudenti paesi europei, in primis Francia e Germania. Per giustificare l’assurda guerra Tony cominciò a dire mezze verità, trincerandosi alla fine di ogni discorso o intervista in un vuoto “giudicherà la storia”. E la storia ha giudicato. I morti inutili hanno giudicato. Il miglior commento lo ha dato l’arcivescovo Desmond Tutu in un articolo pubblicato sulla stampa inglese all’inizio di settembre. “Ci hanno spinto sull'orlo di un precipizio - dove stiamo in compagnia dallo spettro della Siria e dell'Iran. Se i leaders possono mentire, allora chi deve dire la verità? Pochi giorni prima che George W Bush e Tony Blair dessero l'ordine di invadere l'Iraq, chiamai la Casa Bianca e parlai con Condoleezza Rice, all'epoca responsabile per la sicurezza nazionale, per chiedere che fosse dato più tempo agli ispettori delle Nazioni Unite per confermare o negare l'esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Se avessero dato conferma della presenza delle armi, dissi, avrebbero avuto il sostegno di tutto il mondo per l'operazione di smantellamento.
La Rice si mostrò dubbiosa, dicendo che era un rischio troppo elevato e che il presidente non avrebbe rimandato oltre. Su quali basi si decide che Robert Mugabe deve finire davanti alla Corte Penale Internazionale, Tony Blair deve entrare nel circolo dei grandi speakers internazionali, Bin Laden deve essere assassinato, mentre l'Iraq deve essere invaso non perché ha le armi di distruzione di massa, come il principale sostenitore di Bush, Tony Blair, ha confessato la scorsa settimana, ma per togliere di mezzo Saddam Hussein? La decisione di sbarazzassi del despota iracheno e leader assassino ha un costo stellare, soprattutto per l'Iraq stesso”.
Basterebbe questo per dimenticare lo “statista” Blair. Ma la faccia tosta dell’uomo, un Rutelli di oltre Manica forse un po’ più scaltro, è infinita: dopo 4 anni passati arrancando come premier, finalmente Blair si dimette nel 2007. Comincia una nuova vita segnata più che dalla “conversione” al cattolicesimo – un altro evento per cui il politico inglese è stato osannato soprattutto in Italia – dall’amicizia e dai rapporti di affari con gli sceicchi arabi. Un’attività rimasta abbastanza nascosta perché il Nostro, nel frattempo, era stato inopinatamente nominato niente meno che “inviato speciale” per il Quartetto per il Medio Oriente. Ve lo ricordate? Quello che aveva elaborato la famosa Road map per la pace, finita nel dimenticatoio delle buone intenzioni. Intanto però Tony girava allegro per tutta la regione, stabilendo contatti completamente inutili ai fini della pace ma decisivi per rimpinguare il suo portafoglio.
Saltano fuori imbarazzanti conflitti di interessi. Il giornalista del Los Angeles Times Edmund Sanders, in un’intervista dell’ottobre 2011, mette facilmente il dito nella piaga. Riporta il blog di Mario Braconi: “Se non bastasse il grave deterioramento della sua immagine, inevitabilmente legata alla guerra in Iraq, ci sono ragioni di buon senso che gli consiglierebbero di fare un passo indietro. In particolare il suo ruolo di consulente della banca d’affari JP Morgan, che tende a sovrapporsi pesantemente agli obblighi derivanti dal suo impegno di «uomo di pace» in Medio Oriente. Il giornalista del LA Times fa esplicitamente riferimento al ruolo presumibilmente avuto da Blair nel favorire Wataniya, una società di telefonia mobile di proprietà di società del Qatar e del Kuwait, e la British Gas.
Il caso Wataniya è abbastanza spinoso: sembra infatti che Blair abbia fatto pressioni sul governo israeliano per far liberare delle frequenze che sarebbero poi state utilizzate dalla società di telefonini della penisola arabica e, si dice, cara a Abbas e affini. Secondo la ricostruzione dei fatti fatta da Reuters, ben 16 milioni di dollari di aiuti, originariamente destinati a piccole attività agricole e artigianali palestinesi, sarebbero state dirottati sulla società mediorientale, che per inciso era cliente di JP Morgan (anche se c’è chi non manca di ricordare che Blair sia consulente anche del Governo del Kuwait, che controlla indirettamente il 24% del capitale di Wataniya).
Vero è che anche restavano altri fondi per gli scopi suddetti, e che comunque Wataniya ha prodotto effetti economici benefici grazie all’indotto; ma il conflitto di interessi pesa eccome sulla credibilità, già abbastanza malridotta, del capo mediatore. Ma su questo, Blair è stato chiaro: «Resterò», ha detto, chiudendo l’intervista”.
Tutto ciò è ancora il minimo rispetto all’ultima operazione che ha coinvolto il procacciatore d’affari Blair, al soldo dell’emiro del Qatar: è l’affare Glencore. Ivan Glasenberg, proprietario di Glencore la più grande azienda per il commercio di materie prime del mondo, sta cercando di acquisire Xstrata, una multinazionale mineraria ricchissima e contestatissima, di cui già possiede il 34%. Ma Qatar Holding (Qh), braccio di investimento del fondo sovrano di Doha, che possiede il 12% di Xstrata si è sempre opposta alla fusione. Negli ultimi giorni però, proprio grazie a Blair, le due parti si sono molto avvicinate. Esito? Non è ancora chiaro come finirà l’operazione. Intanto le casse di Tony sorridono: oltre 20 milioni di sterline di entrate lo scorso anno, grazie alla sua attività di consulente per imprenditori e governi stranieri; 620 mila sterline (un milione di dollari) dal premier del Qatar per aver lavorato 3 ore. E adesso tutti i giornali inseguono le finanze di Blair.
Finchè c’è guerra c’è speranza dunque. Forse però il problema non è Tony Blair. Sono quei politici che continuano a dare credito a personaggi spregiudicati come lui. È una sinistra incapace di agire veramente con coerenza, che preferisce costituire una lobby globale piuttosto che lavorare per davvero al cambiamento.