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Palestina: l'economia si muove, per l'indipendenza tutto rimandato
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Salam Fayyad, il primo ministro palestinese dà come probabile e forse imminente una dichiarazione unilaterale di indipendenza della Palestina, cioè della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, entità che adesso sono separate geograficamente e politicamente. Di una proclamazione di indipendenza se ne parla da almeno vent’anni con scadenza quinquennale, ma alla fine tutto viene sospeso o rimandato. Ma oggi sembra che ci siano le circostanze favorevoli per un atto che non cambierebbe molto la situazione sul terreno ma che muterebbe lo scenario politico, non si sa se positivamente o negativamente.
Le dichiarazioni di Fayyad, criticate in maniera aspra dal governo israeliano, non sono state accolte con entusiasmo neppure dalla dirigenza dell'Olp (l'organizzazione per la liberazione della Palestina, fondata da Arafat e titolare degli accordi del 1994) timorosa di essere scavalcata dal primo ministro e ondivaga sull'opportunità di una dichiarazione unilaterale. Tutti i problemi rimarrebbero intatti dalla democrazia di uno stato palestinese al ritorno dei profughi, dallo status di Gerusalemme alla definizione dei confini, dai rapporti dell’Anp (l'autorità nazionale palestinese, nata nel 1994 dopo gli accordi di Oslo come primo nucleo del futuro Stato) con Hamas (l'organizzazione integralista che controlla Gaza), dal muro e ai check point.
Dopo l’elezione di Netanyahu a primo ministro di Israele e l’acuirsi della contrapposizione con l’amministrazione Obama, dovuta soprattutto al progetto di 1600 nuove case per israeliani a Gerusalemme est e di nuovi insediamenti, come descrive concretamente “dal basso” la nostra inviata in Terra Santa Michela Perathoner, Israele si trova in una posizione di debolezza a livello internazionale. Minacciato da più versanti (in primis l’Iran con la sua legione straniera rappresentata da Hezbollah in Libano) e imbrigliato da estremismi interni, lo stato ebraico, forte militarmente, è in fondo debole in tutto il resto. Di qui, nella confusione generale, la possibilità di uno spazio di manovra palestinese, seppur ristretto e condizionato dagli imponderabili umori mediorientali.
Mentre Gaza resta un buco nero, la Cisgiordania gode di un certo sviluppo economico. Questa affermazione potrebbe destare qualche perplessità se consideriamo che dal 2000 al 2008 la crescita annua del Pil palestinese è diminuita dal 4,7% all’1,8% , che la seconda Intifada non ha certo favorito l’economia, che la pressione militare israeliana ha prodotto gravissimi danni e che la chiusura ermetica di Gaza soffoca gli scambi con l’esterno. Nonostante tutto, mentre pochi se ne accorgono, nel 2009 l’economia palestinese è andata meglio delle aspettative.
Osservatori di varie sensibilità e opinioni politiche concordano su questo punto: il Pil è cresciuto del 7% (sappiamo quanto la misura del Pil non rappresenti la situazione reale, tuttavia è un segno positivo rispetto agli anni passati), il turismo è in espansione, anche le esportazioni si muovono, mentre in Cisgiordania nel secondo trimestre del 2009 la disoccupazione è scesa dal 20% al 16% contro il 19% del 2008. Il Fondo monetario internazionale stima che anche per il 2010 l'economia crescerà a ritmi superiori al 6% e l’Anp sta intensificando i propri sforzi a sostegno dell'imprenditoria privata, un settore molto più debole rispetto a quello dei servizi, vero motore dello sviluppo.
Nablus, Hebron e Ramallah presentano sicuramente gravi problemi ma sono città vive e in espansione. Dall’aprile 2008, a seguito di un miglioramento delle condizioni di sicurezza, sono stati rimossi 147 blocchi stradali e check-point. È permesso ai cittadini arabi israeliani di entrare in sette città palestinesi, è stato esteso l’orario di transito merci sul ponte Allenby che collega i territori con la Giordania.
Da questo si capisce però quanto l’economia palestinese sia dipendente da Israele, un fattore ambivalente che da un lato segnala l’interdipendenza dei due “vicini” e la convenienza di una coabitazione pacifica, ma dall’altro dimostra l’impossibilità di una reale autonomia nazionale della Palestina. Il problema è certamente la politica di corto respiro della destra israeliana ma anche della dirigenza palestinese. Salam Fayyad, candidato a succedere al presidente Abu Mazen, sicuramente meno corrotto della dirigenza precedente un tecnocrate lontano dal popolo.
Insomma, come al solito la situazione è fluida e un razzo o un proiettile di carro armato potrebbero rovinare la delicata costruzione di un futuro migliore. Ma bisogna ugualmente crederci.
Piergiorgio Cattani
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