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Medici, operatori umanitari e giornalisti: intervista a Elisabeth Di Luca in rotta su Gaza
Pace
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Immagine: Magazine.cisp.unipi.it
Non si fermano le azioni nonviolente della società civile globale per rompere il blocco navale con cui Israele impedisce l’ingresso di aiuti a Gaza, in violazione del diritto internazionale del mare e del diritto internazionale umanitario. Lo scorso 30 settembre è partita la Conscience della Freedom Flotilla Coalition, con a bordo un centinaio tra medici, operatori umanitari, giornalisti ed equipaggio: nelle prossime 48 ore l’imbarcazione dovrebbe entrare nella cosiddetta “zona rossa”, dove la marina militare israeliana assalta e dirotta le imbarcazioni civili cariche di aiuti per la Striscia di Gaza. Abbiamo intervistato Elisabeth Di Luca, educatrice in emergenza sulla Conscience, laureata in Scienze per la Pace all’Università di Pisa. Come già avvenuto per le altre imbarcazioni della Freedom Flotilla, e come avvenuto tra l’1 e il 2 ottobre alle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, anche la Conscience rischia di subire il dirottamento in acque internazionali da parte della marina militare israeliana. Mentre una parte degli equipaggi della Sumud è ancora detenuta in Israele in condizioni degradanti, l’imbarcazione ammiraglia della Freedom Flotilla prosegue la sua missione: qui si può seguire la sua rotta. È importante che anche questa iniziativa riceva da terra tutto il supporto che merita: tre giorni di mobilitazione senza precedenti, in Italia e nel mondo, mostrano che l’attenzione intorno a Gaza e alle azioni di rottura del blocco navale è molto alta.
Qual è l’obiettivo della Conscience e quali sono le peculiarità di questa missione?
La missione della Conscience, così come della Freedom Flotilla Coalition di cui fa parte, è la stessa delle altre missioni: rompere via mare l’assedio di Gaza da parte dell’esercito israeliano. Certo, portiamo aiuti alimentari e umanitari – tonnellate di cibo, acqua e medicine – ma il punto centrale della missione non è questo. La Conscience è una nave particolare. Il suo equipaggio è costituito da vari professionisti – medici, infermieri, operatori umanitari, giornalisti – che vogliono sostenere gli sforzi dei colleghi e delle colleghe che resistono a Gaza. Sappiamo che, dopo la popolazione civile, queste categorie professionali sono quelle che più sono state prese di mira dall’esercito israeliano.
La popolazione di Gaza ha certamente bisogno di corridoi umanitari, ma soprattutto ha bisogno che finiscano le uccisioni sistematiche di civili e che abbia termine l’occupazione illegale da parte di Israele. Anche se l’assedio totale finisse domani, le condizioni di vita a Gaza sarebbero insostenibili: dunque, il nostro lavoro deve guardare anche alla ricostruzione, di cui dovrà essere protagonista la società palestinese.
Dobbiamo mirare a una situazione in cui Gaza non abbia più bisogno di aiuti, ma sia nelle condizioni di potersi autogovernare. Avrà bisogno della solidarietà internazionale, che non le mancherà, ma è importante che diventi autonoma e possa decidere il suo futuro.
Perché hai deciso di unirti alla missione?
Le ragioni per cui mi sono unita sono molte. Ciò che mi spinge a mettere in gioco il mio corpo e la mia vita è, innanzitutto, la consapevolezza di essere una persona privilegiata e di dover usare il mio privilegio per contrastare una profonda ingiustizia, come quella che colpisce il popolo palestinese.
Un’altra ragione importante, che sono certa sia comune a tante e tanti, è il costante lutto che sento da due anni nell’assistere in diretta a un genocidio. La storia è piena di genocidi, ma non è mai successo di vederne uno in diretta streaming: assistere quotidianamente alla distruzione di un’intera popolazione cambia radicalmente la percezione delle cose e il modo in cui si vive l’empatia verso gli altri esseri umani. Le persone che si trovano qui con me su questa nave, ma anche sulle altre navi, così come i milioni di persone che da mesi vanno in piazza sentono questa ferita aperta dentro l’umanità.
Poi, ovviamente, c’è anche il lato professionale. Gaza rappresenta una sfida gigantesca dal punto di vista dell’educazione d’emergenza. Io sono un’educatrice in emergenza: il mio lavoro è quello di cercare di assicurare l’accesso all’istruzione in contesti in cui non viene garantito. Non dimentichiamo che l’esercito israeliano ha distrutto, tra i vari edifici civili, non solo ospedali ma anche scuole e università.
Non è solo un problema di edifici scolastici distrutti: tra le persone uccise c’è un numero altissimo di bambini, ma anche di educatori e di insegnanti. Per tutte queste ragioni, nelle emergenze che ho studiato o che ho vissuto direttamente, non c’è nessun caso che si avvicini a Gaza.
Le situazioni che ci troviamo davanti sono generalmente critiche, ma mai fino a questo punto. Ecco perché, proprio da un punto di vista professionale e personale, ho sentito il dovere di esserci, di partecipare a questa missione. Pur sapendo che sarà estremamente difficile esercitare il mio lavoro nelle condizioni in cui si trova Gaza, così come è difficilissimo per i medici fare il proprio mestiere, senza ospedali, macchiari e medicine.
Puoi ricordare brevemente, a chi non la conosce, che cos’è e quando nasce la Freedom Flotilla Coalition?
La Freedom Flotilla è un movimento di solidarietà internazionale animato da campagne e iniziative “dal basso”, provenienti da diverse parti del mondo, che collaborano per porre fine al blocco illegale che Israele impone a Gaza dal 2006. Il movimento è nato nel 2010 come risposta all’assedio della Striscia, portando avanti sempre azioni guidate dai principi della resistenza nonviolenta.
Prima del 2010 alcune prime missioni sono riuscite ad arrivare a Gaza via mare. Non solo: sono riusciti anche a fare uscire dalla Striscia alcune persone che avevano necessità speciali, come un ragazzo di 16 anni che non aveva più una gamba a causa di un attacco israeliano: non solo non riusciva ad avere assistenza adeguata ma, sempre a causa del blocco, non aveva potuto ricevere neanche una protesi.
La situazione è cambiata a maggio 2010. La nave Mavi Marmara, partita dalla Turchia in direzione di Gaza all’interno del Free Gaza Movement, stata abbordata dall’esercito israeliano, che ha causato 10 morti e più di 30 feriti tra l’equipaggio. La Freedom Flotilla è nata anche in risposta a questo grave episodio. La nave su cui mi trovo in questo momento, la Conscience, è stata acquistata grazie ai soldi del risarcimento che Israele alla fine ha dovuto pagare.
Avete ovviamente seguito da vicino le azioni della Global Sumud Flotilla. Andando contro il diritto internazionale del mare, che impedisce l’intercettazione di imbarcazioni civili in acque internazionali, e contro il diritto internazionale umanitario, che non consente blocchi navali finalizzati a fermare aiuti alle popolazioni civili in contesti di conflitto, l’esercito israeliano ha dirorrato le imbarcazioni e arrestato gli equipaggi. Chi è stato rilasciato ed è rientrato nel paese d’origine, riferisce di gravi abusi e condizioni di detenzione degradanti.
Ci aspettavamo di vedere questo trattamento per gli equipaggi della Sumud. Israele aveva assicurato che avrebbe trattato gli attivisti come terroristi. Non è una bella notizia, né per noi, né per nessuno: ci dà l’idea di quella che sarà a breve la nostra sorte. Sapevamo fosse molto probabile che accadesse. Ma questo non ci ha fatto cambiare idea, né ci ha fatto deviare dalla nostra rotta.
Abbiamo intenzione di arrivare fino a Gaza. Se non ci lasceranno entrare, ci riproveremo. Non abbiamo nessuna intenzione di arrenderci nel provare a rompere l’assedio, né di smettere di lottare per una Palestina libera e di denunciare le ingiustizie sofferte dal popolo palestinese.
Questa ingiustizia in qualche modo ci riguarda tutte e tutti, dal punto di vista umano e morale. Ma ha anche un impatto diretto su ciascuno/a di noi. Penso alla questione ambientale e climatica. Soltanto nei primi mesi del genocidio è stato sganciato sulla Striscia un numero di bombe superiore a quello utilizzato nella Seconda guerra mondiale e nella guerra del Vietnam. Noi viviamo in un sistema chiuso e interconnesso: gli effetti di questo disastro ecologico si risentiranno in tutto il pianeta...