Gibe III: il grande inganno

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Fame, contadini senza campi e pastori semi-nomadi costretti a diventare sedentari. Sono questi gli effetti della costruzione della diga Gilgel Gibe III in Etiopia, sul fiume Omo.

La denuncia arriva dal rapporto del centro studi californiano The Oakland Institute, pubblicato a giugno. In “How they tricked us: living with the Gibe III dam and sugarcane plantation in Southwest Ethiopia” (Come ci hanno ingannati: vivere con la diga Gibe III e le piantagioni di canna da zucchero nel Sudest dell’Etiopia) il centro studi mette in luce il peggioramento delle condizioni di vita per le popolazioni indigene della Valle dell’Omo, a tre anni dal completamento della diga e a sette dai primi impianti per la coltivazione di canna da zucchero.

Sotto accusa la diga sul fiume Omo - affluente del Lago Turkana, in Kenya -, costruita dall’azienda italiana Salini Impregilo per garantire la produzione di energia elettrica e collegata ad un sistema di irrigazione per le piantagioni a valle.  L’infrastruttura dovrebbe regolare le piene del fiume e assicurare l’acqua necessaria al progetto di agribusiness nato nel 2011. Si tratta del Omo-Kuraz Sugar Development Project, una concessione di 245mila ettari alla statale Etiopian Sugar Corporation per la coltivazione di canna da zucchero, destinata all’esportazione.

Il progetto avrebbe anche dovuto creare centinaia di migliaia di posti di lavoro nella regione. A sette anni dall’avvio ufficiale, però, secondo i dati della compagnia, sono stati piantati solo 16mila ettari e la concessione è stata ridotta a 100mila ettari. Delle sei fabbriche per la lavorazione della canna, quattro verranno effettivamente realizzate e solo due sono ad oggi operative. Oggi, il centro studi californiano denuncia il fallimento del progetto. La diga e l’intero programma agroindustriale non hanno tenuto conto delle popolazioni indigene dei Bodi, dei Mursi e dei Kwegu del Nord, che abitano la regione. Secondo i ricercatori dell’Oakland Institute, che segue la vicenda della Valle dell’Omo da una decina d’anni, le comunità non sono state consultate e informate correttamente. A questo si aggiunge la mancanza di adeguate compensazioni. Molte comunità sono state ricollocate in villaggi realizzati dal governo. Per i ricollocamenti, poi, sottolinea il rapporto, c’è stato un diffuso utilizzo della forza.

Secondo lo studio nelle comunità Mursi sono stati rilevati casi di persone che soffrono cronicamente la fame. I popoli indigeni della valle, infatti, erano dediti all’agricoltura lungo le rive dell’Omo. Sfruttavano il suolo ricco di nutrienti lasciato dalle piene del fiume per piantare grano e sorgo. Le piene, però, dopo la costruzione della diga, sono semplicemente scomparse. Le esondazioni controllate, promesse dal governo e dalla stessa compagnia costruttrice, non si sono mai verificate, sottolinea il centro studi. Le comunità indigene dell’area hanno perso l’accesso alla terra e hanno dovuto modificare le loro abitudini di vita. I Mursi, che oltre a coltivare allevano il bestiame, sono diventati stanziali, riducendo le loro attività economiche e vendendo i capi. I campi, promessi come compensazione del ricollocamento, si sono rivelati insufficienti a garantire l’accesso ad un cibo adeguato. In alcuni casi le comunità hanno denunciato di aver scavato autonomamente i canali di irrigazione all’interno dei campi assegnati, senza alcun aiuto da parte del governo.

La compagnia statale dello zucchero dichiara di aver stanziato circa 79 milioni di birr in infrastrutture, l’equivalente di 2 milioni di euro. Scuole, presidi sanitari, mulini e accesso all’elettricità però, secondo i ricercatori, non sono mai stati realizzati. Le popolazioni indigene della Valle dell’Omo hanno visto cambiare il loro stile di vita: abbandonando la vita nomade, le attività economiche tradizionali e la raccolta delle erbe medicinali. Le promesse di posti di lavoro, secondo il report, si sono materializzate solo in parte. Alcuni uomini delle comunità sono stati impiegati dalla compagnia di agribusiness. I contratti, però, spesso sono stagionali e pagati poco. Molti lavoratori provengono da altre aree del paese. La presenza della compagnia ha diviso al loro interno le comunità: tra favorevoli e contrari.

Se prima del 2011 gli aiuti alimentari nella regione erano frequenti, oggi sono diminuiti o cessati. Chi richiede aiuti alimentari viene invitato a coltivare i campi assegnati nei nuovi insediamenti. Le comunità sostengono che il governo voglia spingere tutti all’interno dei villaggi. La vita degli indigeni viene messa i pericolo anche dai camion per il trasporto della canna da zucchero, che percorrono le strade ad alta velocità. Alcune testimonianze raccolte ipotizzano l’intenzionalità di colpire chi cammina lungo le strade. Il rapporto si chiude con un appello diretto al primo ministro Abiy Ahmed perché intervenga per migliorare le condizioni di vita della popolazione locale, garantendo l’accesso alle forme tradizionali di attività economica e permettendo alle comunità di vivere anche al di fuori degli insediamenti predisposti. Chiede inoltre l’abbandono del progetto di piantagione e mette in guardia sulla costruzione di altre due dighe, Gibe IV e V.

Marta Gatti da Nigrizia.it

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