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Tibet: se i danni ambientali raggiungono il “tetto del mondo”
Contaminazioni
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Prati verdissimi e fertili, ghiacciai mozzafiato, laghi e fiumi che rimandano l’immagine di un cielo blu terso, immense ricchezze di minerali e risorse naturali uniche: sono le caratteristiche che abbiamo sempre associato all’ecosistema del Tibet, ma che oggi sarebbero in serio pericolo. A fine anno, infatti, e con un’intensità mai vista prima, una nube di smog proveniente dalla Cina è arrivata fino alla capitale tibetana Lhasa, avvolgendo di polvere grigia la cosiddetta “città del sole” tanto che, a causa della scarsissima visibilità, i voli sono stati dirottati e bloccati per diverse ore. Perfino uno dei suoi monumenti più riconoscibili, il Palazzo del Potala (patrimonio mondiale dell’Unesco e che in precedenza serviva come residenza invernale del Dalai Lama) risultava invisibile per chilometri, a causa della nube di inquinamento che avviluppava ogni cosa.
E dire che, posta sul “tetto del mondo” a 3.700 metri sopra il livello del mare, Lhasa era stata nominata solo un mese prima dal ministero cinese per la Protezione Ambientale come una delle 10 città con la migliore qualità dell’aria di tutto paese. I giornali di proprietà statale hanno attribuito la responsabilità della cappa di smog al forte calo della temperatura unito a bassa pressione, o a una non meglio precisata “tempesta di sabbia”, mentre fonti locali non hanno dubbi che si tratti di una conseguenza derivante dal massiccio sfruttamento delle risorse tibetane da parte della Cina, che va dalla deforestazione selvaggia alla costruzione di fabbriche e soprattutto di miniere per l’estrazione di minerali e metalli preziosi. E se l’inquinamento dell’aria è un fatto relativamente nuovo, la lotta contro la contaminazione di terre e acque è un problema che i tibetani stanno affrontando da diversi anni e che ha portato, tanto per cambiare, a proteste duramente represse, uccisioni, deportazioni e arresti.
L’industria mineraria si è infatti estesa drasticamente sull’altopiano tibetano grazie ai programmi governativi e soprattutto dopo la costruzione del collegamento ferroviario Golmud-Lhasa del 2006. Accanto alle grandi miniere controllate dal governo, però, piccole cave minerarie non regolamentate continuano a spuntare dappertutto in Tibet. Giacimenti che, grazie ai salari bassissimi, agli standard minimi di salute e sicurezza, e a leggi ambientali piuttosto deboli (almeno nella loro applicazione), permettono alle società cinesi di estrarre con profitto anche da depositi che sarebbero normalmente antieconomici. Se a questo si aggiunge la corruzione dei funzionari cinesi, si capisce come i costi si abbassino ancora di più con conseguente aumento dei profitti.
L’altro rovescio della medaglia sono però i danni all’ambiente, che negli ultimi anni si sarebbero moltiplicati. Ad esempio, le operazioni di estrazione nella miniera di Gyama, nella contea tibetana di Maldro Gongkar, secondo gli esperti avrebbero già inquinato in modo grave le fonti d’acqua locali. “L’estrazione in corso nelle colline superiori di Gyama per quasi due decenni ha portato al riversamento di rifiuti tossici nel fiume Gyama Shingchu, causando la morte di un gran numero di capi di bestiame – spiega un rapporto del Governo centrale tibetano in esilio, uscito dopo la frana catastrofica che a marzo 2013 ha ucciso 83 persone – Eppure gli abitanti dei villaggi nella valle dipendono da questo fiume per il loro approvvigionamento di acqua potabile e per l’irrigazione”.
La situazione non è molto diversa in altre parti del Tibet dove le miniere cinesi sono in funzione, e non bisogna dimenticare che, al problema dell’inquinamento da scarichi, c’è quello derivante dalla costruzione di enormi dighe che deviano i corsi d’acqua principali, e che non fanno che esacerbare le relazioni di Pechino con la popolazione locale. Senza contare il numero record di sfollati tibetani nella loro stessa patria, paradossalmente nel contesto delle politiche cinesi di conservazione dell’ecosistema della regione (per i cinesi, infatti, sarebbero proprio i pastori locali ad aver rovinato le terre e i pascoli). I funzionari tibetani a Dharamashala, in India, che ospita la sede in esilio del Dalai Lama, dicono che tra 1,5 e due milioni di tibetani sono stati mandati via dalle loro terre pastorali mentre, appunto, le miniere d’oro e di rame si sono moltiplicate.
Inutile dire che le minacce contro qualsiasi tipo di resistenza e opposizione non si sono fatte attendere. “I tibetani che sono riusciti a scappare – spiegano alla Bbc i funzionari del governo in esilio – ci hanno raccontato che le autorità cinesi giravano per le strade con un altoparlante montato sul veicolo, avvertendo tutti che qualsiasi protesta contro le miniere sarebbe stata vista come una protesta contro lo Stato, dato che la Cina ha bisogno di risorse naturali per il suo sviluppo”. I soldati cinesi sono inoltre andati casa per casa costringendo i locali a firmare dei documenti con la promessa che non avrebbero protestato. Promessa che in molti, nonostante le minacce, hanno deciso di non mantenere. Nel mese di agosto, infatti, gli scontri tra polizia e manifestanti tibetani presso i siti minerari cinesi nella vicina provincia di Qinghai hanno portato a decine di feriti e molti arresti. Ed è di poco tempo fa la notizia della condanna a oltre 13 anni di prigione di tre tibetani, compreso il cantante e attivista Trinley Tsekar, per aver partecipato alle manifestazioni contro le attività minerarie cinesi presso la montagna di Naglha Dzambha, considerata sacra dai tibetani dell’area di Driru. E questo solo in tempi recenti.
La situazione, infatti, si è da tempo fatta talmente grave che secondo il Dalai Lama l’attenzione della comunità internazionale dovrebbe essere incentrata, piuttosto che sulla situazione politica, sulle tematiche ambientali in Tibet per i prossimi 5-10 anni (si tratterebbe di una dichiarazione fatta all’ambasciatore americano in India nel 2009 e diffusa da Wikileaks): “Lo scioglimento dei ghiacciai, la deforestazione e l’acqua sempre più inquinata dalle attività estrattive sono problemi che non possono attendere” avrebbe detto il leader spirituale tibetano.
Il ché genera però un dilemma: com’è possibile ottenere un progresso significativo nei diritti ambientali senza gli altri diritti fondamentali? Senza l’accesso all’informazione, la libertà di parola, la libertà di riunione, il diritto alla salute? Tutte cose che il governo cinese sta violando in toto, e se le leggi di tutela ambientale ci sono, ciò che manca è la loro applicazione, così come la responsabilità che deriva dal rispetto di tutti i diritti umani fondamentali.