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Russia: dove lo “sviluppo sostenibile” è fatto con le perdite di petrolio e diritti
Contaminazioni
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Siamo a Pyt’-Yah, nella regione Khanty Mansi in Siberia, dove l’ennesimo sversamento di petrolio denunciato lo scorso 4 giugno da Greenpeace non fa più notizia. La regione del Khanty Mansi è la capitale russa della produzione del petrolio: qui petrolio e gas creano il 25 per cento del budget nazionale, una disastrosa inflazione e una totale dipendenza dal mercato dell’oro nero. “Ci troviamo nel cuore delle operazioni della Rosneft, la compagnia petrolifera pubblica più grande al mondo - ci ha spiegato Zhenya Belyakova, campaigner Artico di Greenpeace Russia - e nel mezzo di una larga palude coperta da uno spesso strato di petrolio nero e melmoso: qui è impossibile tenere i vestiti puliti. Questo è il lato oscuro dell’economia delle materie prime, nascosto agli occhi dei consumatori europei e dei miliardari distratti nelle capitali della Russia”.
Ogni anno, infatti, le industrie petrolifere russe riversano nell’ambiente oltre 30 milioni di barili di petrolio, equivalenti a sette disastri della Deepwater Horizon la piattaforma petrolifera che il 20 aprile 2010 disperse nel Golfo del Messico qualcosa come 5 milioni di barili di petrolio. Ci sono oltre 20 mila singoli incidenti ogni anno e di questi la metà sono attribuibili al gigante petrolifero Rosneft, rendendo la compagnia statale russa il leader globale delle perdite di petrolio e distanziandola di gran lunga dalle altre grandi compagnie come Shell, BP, ConocoPhilips e Chevron. Qui nelle profondità della foresta siberiana le compagnie petrolifere, ed in particolare la Rosneft non hanno bisogno di preoccuparsi della propria immagine. “Il Governo non è riuscito o non ha voluto stabilire un controllo regolare e una supervisione delle attività, e quindi la maggioranza dei piccoli incidenti non viene neanche notata. Per gli sversamenti più grandi invece, la Rosneft preferisce pagare le multe irrisorie che le vengono addebitate” ha continuato la Belyakova.
Il Servizio federale russo per la supervisione dell’uso delle risorse naturali ha accusato già nel 2011 la Rosneft di essere la causa dei peggiori sversamenti di petrolio avvenuti nella Regione autonoma dai Khanty Mansi. Da allora però poco è cambiato. Le autorità di controllo segnalano ancora oggi che il 97 per cento delle rotture degli oleodotti si verificano a causa della corrosione, causata dall’usura e dall’uso scorretto delle strutture. La maggioranza di queste tubazioni ha oltre 30 anni e non erano certo pensate per durare così a lungo. “Vediamo condutture appoggiate al suolo oppure nei corsi d’acqua arrugginirsi a causa dell’umidità della terra o per la neve, vediamo buche lasciate dai lavori di riparazione, riempite con la melma di petrolio. Migliaia di ettari di foreste intorno stanno lentamente morendo per contaminazioni tossiche e incendi, gli specchi d’acqua brillano a causa delle macchie di petrolio. Alcune perdite sono lunghe svariati chilometri e sono presenti da anni, appaiono accanto a tubazioni rotte e si allargano sempre di più ogni anno. Vediamo molti uccelli ed altri piccoli animali morti. Le popolazioni locali dicono di aver visto alci morte nella palude coperta di petrolio. L’odore chimico è appiccicoso e soffocante” ha raccontato Greenpeace.
Secondo l'ong questo disastro ambientale e umano è la routine giornaliera di questo gigante petrolifero che ora corre verso lo sfruttamento delle risorse artiche. Invece di riparare i suoi tubi danneggiati e arrugginiti in Siberia, la compagnia pianifica di investire milioni e milioni di dollari nelle delicate e rischiose esplorazioni artiche, che hanno recentemente visto il colosso Shell capitolare. Ma grazie al grande supporto ricevuto dal Governo, Rosneft ha già ottenuto il via libera alle esplorazioni in un’area di oltre un milione di chilometri quadrati e pianifica di espandersi ulteriormente. Da maggio Rosneft ha, infatti, un accordo con il gigante norvegese Statoil per esplorare giacimenti petroliferi in centinaia di migliaia di chilometri quadrati nella regione del Mare di Barents. L’accordo, firmato in presenza del presidente russo Vladimir Putin, ora è fortemente contestato in Norvegia perché pone il problema di come un’impresa pubblica possa condividere progetti con una compagnia statale russa con problemi ambientali così grandi e che si estendono ben oltre i confini della regione dei Khanty Mansi. Nel 2000, infatti, le attività di Rosneft nelle isole Sakhalin, nell’Estremo Oriente russo, hanno causato un disastro ambientale che continua ancora oggi, tanto che le associazioni ambientaliste russe hanno chiesto che Rosneft venga esclusa dagli sponsor dei Giochi Olimpici invernali del 2014 di Sochi.
Ma questo tipo di sviluppo risulta insostenibile non solo per l’ambiente. Le popolazioni indigene dell’area sono state costrette negli ultimi anni ad abbandonare il proprio stile di vita tradizionale perché questo eccesso di produzione petrolifera significa meno vita nella foresta, niente pesci nei fiumi inquinati e pascoli di renne rimpiazzati con strade e campi petroliferi. Contro questa situazione poco hanno potuto le associazioni ambientaliste e per i diritti umani alle quali il Cremlino ha deciso di rendere impossibile la vita. “Secondo una legge approvata lo scorso anno - ha ricordato l’associazione internazionale Salva Foreste - le associazioni finanziate dall'estero sono tenute a registrarsi come agenti stranieri, un termine sinonimo di spia, pena il pagamento di sanzioni fino a 500.000 rubli (16.000 dollari) per le associazioni e fino a 300.000 rubli (10.000 dollari) per i direttori delle associazioni”. Ma “Agenti stranieri” non sono solo le grandi associazioni internazionali, come il WWF o Greenpeace, ma anche le piccole associazioni locali che hanno ricevuto alcuni fondi da fondazioni estere come nel caso della Associazione russa dei Popoli Indigeni del Nord, della Siberia e dell'Estremo Oriente (Raipon), che rappresenta 41 popoli indigeni che vivono in Russia, da Murmansk a Vladivostok e che nel novembre del 2012 è stata chiusa dal Ministero della Giustizia.
“Come se non bastasse alle conferenze internazionali e agli incontri di alto livello la Rosneft presenta le sue tecnologie come le più all’avanguardia per lo sviluppo sostenibile previsto nell’Artico - ha concluso la Belyakova - Ma noi siamo qui con i nostri stivali immersi in profondità nella melma di petrolio e possiamo vedere quanto lontane dalla verità siano le dichiarazioni della Rosneft”. Occorre un cambio di direzione, lo stesso chiesto anche a livello internazionale dal CIDSE, di cui Focsiv è membro italiano, alla presidenza russa del G20, un’occasione utile per riflettere sul ruolo del G20 nel processo di sviluppo globale e riportare l’attenzione su alcuni questioni chiave che rafforzerebbero l’azione del G20 nella realizzazione di un processo di crescita più inclusivo e sostenibile. Magari alternativo a quello petrolifero.
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