www.unimondo.org/Guide/Ambiente/Contaminazioni/Le-conseguenze-radioattive-per-terra-e-per-mare-199779
Le conseguenze radioattive per terra e per mare
Contaminazioni
Stampa

Foto: Unsplash.com
Utilizzando un archivio di campioni di suolo europei, lo studio “Plutonium aided reconstruction of caesium atmospheric fallout in European topsoils” pubblicato lo scorso mese su Scientific Reports, è stato in grado di individuare le tracce ancora presenti nel terreno europeo generate dai fallout radioattivi compresi tra il 1960 e il 2009. Il team di ricercatori internazionale guidato da Katrin Meusburger dell’Università di Basilea e con la partecipazione degli italiani Giorgia Cinelli e Cristiano Ballabio del Joint Research Centre, ha aggiornato, con un nuovo metodo di calcolo che utilizza il rapporto cesio/plutonio, la mappa delle concentrazioni di radionuclidi di cesio e plutonio nei suoli di Italia, Francia, Svizzera, Germania e Belgio. Secondo i ricercatori “Questi due radionuclidi furono rilasciati durante i test nucleari militari, in particolare negli anni ’60, ma il cesio è sicuramente riconducibile all’incidente di Chernobyl del 1986”.
I dati, utili per stabilire una base di riferimento in caso di possibili futuri fallout, sono stati estrapolati da 160 campioni provenienti da una banca europea dei campioni di suolo. I radionuclidi di cesio e plutonio trovati in questi campioni, hanno lasciato un’impronta specifica nei suoli europei. Ne è risultato che il plutonio trovato in Italia, Francia, Svizzera, Germania e Belgio “proveniva esclusivamente dai test nucleari” mentre il cesio, è il risultato sia dei test nucleari, in particolare negli anni ’60, che del disastro nucleare di Chernobyl del 1986. Per gli scienziati “La relazione tra cesio e plutonio è quindi diversa a seconda provenga da test nucleari o dall’incidente di Chernobyl”, ed è questa relazione che, a differenza delle mappe precedenti, ha permesso ai ricercatori di rintracciare l’origine di questi radionuclidi artificiali depositati sui terreni europei.
Per gli studiosi “Il cesio derivante dai test nucleari, effettuati nella stratosfera, cioè in alta quota, circolava nell’atmosfera prima di essere portato a terra dalle piogge in modo abbastanza omogeneo, ma con quantità leggermente più elevate nella regioni più piovose, come le Ardenne o la Bretagna”. Il cesio rilasciato durante l’incidente di Chernobyl, invece, non ha raggiunto tali altitudini e le piogge sparse che si sono verificate a fine aprile/inizio maggio del 1986 l’hanno rapidamente riportato a terra in zone in cui era circolata la nube radioattiva proveniente dall’Ucraina. “La distribuzione spaziale dei fallout radioattivi è quindi molto più eterogenea, con concentrazioni localmente più elevate in Alsazia, Franca Contea, ai piedi delle Alpi, nell’Italia settentrionale e della Germania meridionale”, dove situazioni atmosferiche e catene montuose hanno favorito un maggiore fallout radioattivo.
Ma queste sconsiderate e prevedibili “conseguenze radioattive”, sia militari che civili, subite dalla popolazione europea, non si limitano al Vecchio Continente. In febbraio la sottocommissione Handling ALPS Treated Water (Alps) istituita dal Ministero dell’economia e dell’industria del Giappone (Meti), ha presentato una proposta per “gestire” l’acqua radioattiva che deve continuare a essere pompata nei reattori nucleari per raffreddare il combustibile prodotto dalla fusione innescata con il terremoto/tsunami che l’11 marzo 2011 ha devastato la centrale nucleare giapponese di Fukushima Daiichi: “scaricare l’acqua radioattiva stoccata direttamente nell’ambiente attraverso l’immissione nell’Oceano Pacifico”. Che il più grande tra gli oceani del Pianeta fosse destinato ad essere “pacificamente radioattivo” era chiaro già poche settimane dopo il disastro nucleare del 2011 e non ci ha stupito sapere nel 2015 che gli scienziati della Woods Hole Oceanographic Institution (Whoi) avevano rilevato, per la prima volta in un campione di acqua di mare dalla costa del Nord America, la presenza di radioattività proveniente dal disastro nucleare giapponese. Ma inquinare deliberatamente il Pacifico sembra veramente troppo.
A confermare la contaminazione oceanica, in verità, non servono delle particelle di cesio, visto che in Oregon nel giugno del 2012 era arrivata, dopo un viaggio di circa 8.060 chilometri, una banchina di 20 metri e circa 165 tonnellate strappata a un porto giapponese dallo tsunami. Ma la scellerata proposta della sottocommissione giapponese lascia ancora più stupiti, perché se la radioattività sparsa nel Pacifico all’indomani della catastrofe di Fukushima è una conseguenza (per quanto non imprevedibile) di un incidente, la scelta di liberare in mare l’acqua radioattiva è il frutto di una riflessione che presenta il minor costo finanziario per il Giappone, ma il maggiore per l’ambiente. Anche se la decisione finale spetterà nei prossimi mesi al Governo giapponese, per la sottocommissione Alps “il rilascio di acqua diluita nell’oceano è un’opzione migliore rispetto allo scarico nell’atmosfera dopo l’ebollizione e un'ulteriore elaborazione per rimuovere il più possibile le sostanze radioattive”. Se per Greenpeace Japan “la proposta è devastante”, la decisione su cosa fare appare adesso una vera e propria emergenza, visto che l’area della centrale nucleare di Fukushima ha ormai quasi raggiunto il limite di stoccaggio dell’acqua radioattiva.
Attualmente sono stoccate 1.2 milioni di tonnellate di acqua contaminata e la Tokyo Electric Power Company (Tepco) che sta gestendo la dismissione del cadavere radioattivo della centrale nucleare ha in programma di arrivare a stoccare nei serbatoi al massimo 1.37 milioni di tonnellate di acqua radioattiva, limite che prevede di raggiungere entro l’estate 2022. L’attuale tecnologia di filtraggio dell’acqua contaminata non riesce a rimuovere il trizio, un isotopo leggermente radioattivo dell’idrogeno che in passato è già stato rilasciato con l’acqua nell’oceano da altre centrali nucleari sia in Giappone che all’estero, con la condizione che i livelli di concentrazione vengano controllati. Secondo la proposta esaminata dalla sottocommissione, prima di rilasciarla nell’oceano, “l’acqua verrebbe trattata una seconda volta per diluire i livelli di trizio al di sotto degli attuali standard di sicurezza”. Ma per Greenpeace Japan “Anche se acqua contaminata di questo tipo viene stoccata in altri impianti nucleari, la situazione di Fukushima Daiichi è parecchio diversa: è il risultato del triplice disastro dei reattori nucleari che ha già avuto un pesantissimo impatto sul commercio dei prodotti agricoli e marini di Fukushima e i pescatori della prefettura si oppongono con forza allo scarico di acque contaminate, anche trattate, dopo anni di restrizioni alla pesca e di pubblicità negativa”.
Attualmente l’opzione meno dannosa per l’ambiente è lo stoccaggio a lungo termine dell’acqua radioattiva in serbatoi robusti, insieme all’applicazione della tecnologia di elaborazione più avanzata per rimuovere tutti i radionuclidi, incluso il trizio. Per Kazue Suzuki, il responsabile energia di Greenpeace Japan che ha partecipato alle sedute della sottocommissione come osservatore, “Scaricare l’acqua radioattiva nel Pacifico non è un’opzione. Il Giappone non dovrebbe prendere decisioni per ridurre i costi a spese dell’ambiente, dei territori, e della comunità locale favorendo un più ampio inquinamento del Pacifico e di altri mari, piuttosto dovrebbe continuare a stoccare l’acqua radioattiva nello spazio confermato e ulteriormente disponibile, prendendo in considerazione attentamente la sicurezza e alternative più sostenibili per rimuovere tutti i radionuclidi dall’acqua radioattiva di Fukushima”. Sarà possibile?
Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.