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Tra gamberi e granchi, passi indietro e di lato ma... quali passi avanti?
Conservazione
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Foto: A.Molinari
Improvvisamente sono balzati ai primi posti in classifica nelle rassegne stampa, emersi dal greto e dai fondali e saliti agli onori delle cronache. Diventati argomento pure per lo zio che sul divano di casa ne commenta la presenza, il futuro, il destino. Dal main topic dei migranti si passa in men che non si dica a quello di gamberi e granchi… come faremo ad affrontare questa invasione di stranieri? Diciamolo meglio: specie alloctone, ovvero specie trasferite al di fuori del loro areale naturale, spesso avendo come vettore diretto o indiretto di spostamento, deliberato o accidentale, proprio l’uomo. Specie che si trovano a occupare habitat diversi dai propri dove, se proliferano, alterano ecosistemi affiatati, sovvertendone gli equilibri.
È quello che è successo con due delle specie acquatiche che negli ultimi mesi sono finite sotto i riflettori: il gambero della Louisiana (Procambarus clarkii), e il granchio blu (Callinectes sapidus). Si tratta di esemplari con caratteristiche fisiologiche tali da soppiantare per forza, abitudini, dimensioni e capacità ripoduttiva l’idrofauna locale, in particolare il gambero di fiume per quanto riguarda laghi e torrenti, e vongole e cozze per gli allevamenti nelle lagune.
Soffermiamoci un attimo proprio sul gambero di fiume (Austropotamobius pallipes): specie autoctona e particolarmente vulnerabile ma di grande importanza nel mantenimento dell’equilibrio degli ecosistemi acquatici, oggi è a rischio estinzione (lista rossa IUCN) sia a causa della perdita di habitat che della competizione proprio con specie aliene invasive. Lo conferma Maria Cristina Bruno, ricercatrice dell'Unità di ricerca idrobiologia della Fondazione Edmund Mach: “Il gambero di fiume è un macroinvertebrato inserito nella Direttiva Habitat 92/43/CEE come specie animale d'interesse comunitario la cui conservazione richiede la designazione di zone e misure speciali”. In Trentino, così come nel resto d’Italia, ogni anno si assiste alla scomparsa di popolazioni che, già segregate in aree limitate, non riescono a far fronte a eventi catastrofici di origine naturale o antropica, al degrado ambientale e all’introduzione di specie aliene e alla conseguente diffusione della cosiddetta “peste del gambero”.
Danni ambientali. Ma anche danni economici, se pensiamo per esempio al caso del granchio e all’impatto della sua aumentata presenza sulla filiera degli allevamenti di bivalvi, in particolare appunto vongole e cozze. Una bella accoppiata. Le specie aliene rappresentano un problema rilevante al punto tale che, oltre a preoccupare scienziati e ricercatori, gambero e granchio sono diventati argomento di discussione non solo per gli stakeholder coinvolti (come per esempio i pescatori) e come è ovvio per gli ambientalisti, ma anche per gli opinionisti da bar, etologi dell’ultim’ora ed esperti amatoriali. E chef.
Già. Perché per tutelare gli ecosistemi le specie invasive devono essere per quanto possibile contenute o eradicate: installazione di nasse negli hot spot più significativi, collaborazioni con soggetti portatori di interesse, monitoraggi e campionamenti delle acque sono solo alcune delle azioni che, in prima battuta, permettono di rintracciare un buon numero di esemplari, valutarne le condizioni e quantificarne, almeno in parte, la consistenza; in seconda battuta, consentono di rimuoverne una parte considerevole, anche se non risolutiva. Ma per salvaguardare l’idrofauna locale, le specie alloctone raccolte dove vanno a finire? Alla discarica. Una mèta che a molti non piace, e non solo per le ragioni degli animalisti. Perché si sa, se si fiuta l’affare…
A metà agosto, un’azienda riminese ha inviato negli Stati Uniti uno dei primi container che nei prossimi mesi faranno arrivare oltreoceano tonnellate di granchi blu interi o lavorati per la vendita sul mercato dei crostacei e destinati (perché la vita non sbeffeggia solo noi umani) proprio ai lidi da cui originariamente provengono. Una sorte che potrebbe presto toccare anche ai gamberi. Ma è davvero una soluzione?
Forse, ma certo molto dibattuta e comunque di limitate prospettive… se non convince la discarica, convince di più la tavola? Politici e influencer si sono spesi per incentivarne il consumo alimentare: non avendo un predatore naturale (ma davvero?), il predatore più indicato diventa, guarda un po’, l’uomo. Un’idea supportata anche da alcuni biologi, come per esempio le fondatrici di Blueat, l’azienda che appunto trasforma il granchio pescato in prodotto per il consumo alimentare su un mercato promettente per bacino e introiti, e il cui payoff “Alien is good, alien is food” ammicca a pericolose derive e fraintendimenti. Ma dov’è quindi il problema, se mentre si risolve un danno ecologico si garantiscono cibo e guadagni?
Di problemi, a dire il vero, ce n’è più di uno. Prima di tutto c’è il rischio che, anziché eradicare una specie invasiva, essa diventi l’ennesima occasione di impiantare allevamenti svenduti a una domanda commerciale e a scapito dell’equilibrio degli ecosistemi fluviali, lacustri e marini.
Un secondo problema è la disinformazione strumentale: per il granchio blu, ad esempio, il predatore naturale esisterebbe, e sarebbe il polpo, ma anch’esso è predato dalla piaga dell’overfishing.
La terza questione è purtroppo sempre la stessa: ci si concentra su soluzioni tampone di brevissimo raggio, dimenticando o tralasciando appositamente i problemi ben più complessi che stanno a monte, come il fatto che l’esplosione di queste specie è dovuta in buona parte anche all’aumento della temperatura e della salinità delle acque. La loro espansione numerica è quindi conseguenza di uno sconvolgimento molto più articolato, effetto della crisi climatica e di tutti i mutamenti che impone. E che per essere affrontati non richiedono i tempi minimi del mercato con margini a breve termine, ma i tempi lunghi della rigenerazione naturale, che poco purtroppo coincidono con i nostri egoismi consumistici.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.