www.unimondo.org/Guide/Ambiente/Conservazione/Isole-hotspot-dell-estinzione-209246
Isole: hotspot dell’estinzione?
Conservazione
Stampa

Foto: Unsplash.com
Oggi alcune isole rappresentano degli esempi virtuosi nel campo delle energie rinnovabili. Su Unimondo abbiamo ricordato Tilos in Grecia, che dal 2018 ha puntato su uno sviluppo energetico integrato di eolico e solare al punto da essere “energeticamente indipendente”. Anche Salina nelle Eolie, assieme ad altre queste 26 isole dell’Unione europea, ha avviato un passaggio alle energie rinnovabili conclusosi la scorsa estate grazie ad un programma di transizione energetica denominato Clean Energy for EU Islands Secretariat. Fuori dal vecchio continente ci stanno provando con un progetto pilota ad Hahajima, in una delle isole del piccolo arcipelago di Ogasawara in Giappone che darà vita nel 2022 alla prima comunità giapponese che potrebbe essere alimentata dalla sola energia solare. Anche l’Isola di Man a gennaio ha annunciato un “piano d’azione” che, entro il 2035, prevede di produrre da fonti rinnovabili il 75% dell’energia elettrica necessaria all’isola. Questa attenzione alle energie rinnovabili non sempre, però, si accompagna con una più attenta politica di tutela ambientale, visto che oggi le isole sono gli ecosistemi più vulnerabili in termini di perdita di specie endemiche. Una biodiversità che è spesso la sola vera ricchezza di territori a volte remoti e proteggerla al meglio dovrebbe essere una priorità affinché le isole possano adattarsi meglio ai cambiamenti ambientali e climatici.
La protezione della biodiversità si basa soprattutto sulla creazione di aree protette terrestri e marine e su degli obiettivi internazionali condivisi, come quelli della Convention on biological diversity, che mira a proteggere il 30% della superficie marina e terrestre del pianeta entro il 2030, obiettivo già assunto dall’Unione europea nella nuova Direttiva Biodiversità. Lo studio “Global correlates of terrestrial and marine coverage by protected areas on islands”, pubblicato lo scorso anno su Nature Communications da un team di ricercatori francesi, britannici e australiani che hanno lavorato su un database mondiale di 2.323 isole abitate, dimostra che la metà di queste isole non ha nessuna area protetta né in terra, né in mare. Per i ricercatori francesi del Centre pour la Biodiversité Marine, l’Exploitation et la Conservation (MARBEC) che hanno guidato lo studio “L’estensione della protezione degli ecosistemi insulari a livello planetario resta limitata” e “Se dobbiamo migliorare la protezione della biodiversità terrestre e marina dei territori insulari, questi sforzi devono essere realizzati sulla base di una conoscenza dei fattori socio-economici e ambientali che possono promuovere o frenare l’attuazione di nuove aree protette. Questo implica un approccio multifattoriale su vasta scala che non è ancora stato realizzato”.
In realtà analizzando tutti i dati della ricerca emerge come in media, le isole siano le aree più coperte da aree protette a livello globale, ma con una grande eterogeneità: “se in media sono protette il 22% delle superfici terrestri e il 13% delle aree marine insulari, la metà delle isole censite non dispone di nessuna area protetta”. Un’eterogeneità della protezione insulare che per i ricercatori si spiega con un insieme di fattori socio-economici e ambientali come quelli climatici, geografici, o i vincoli socio-economici esercitati sulla creazione di aree protette (basso sviluppo economico, alta demografia...). Spesso, quindi, una "monocultura" economica e la scarsa dinamicità delle comunità insulari non favoriscono la protezione dell’ambiente. E gli esempi non mancano nemmeno in Italia, “dove troppo spesso l’Istituzione di aree protette a terra e a mare hanno trovato e trovano ancora ostacoli nei pregiudizi della politica locale”. Eppure le aree protette non dovrebbero essere prese come un limite. Secondo lo studio, “A connectivity portfolio effect stabilizes marine reserve performance”, pubblicato recentemente su Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (PNAS) da un team di ricercatori australiani e sauditi “Un portafoglio di aree protette no-take (dove si può entrare, nuotare e fare immersioni, ma è vietata la pesca) all’interno di parchi marini come la Grande Barriera Corallina può aiutare a proteggere popolazioni ittiche sostenibili” senza destabilizzare l’economia locale. Anzi! Per il principale autore dello studio, Hugo Harrison dell’ ARC Center of Excellence for Coral Reef Studies della James Cook University (Coral CoE), “Un portafoglio di queste aree protette può aiutare a collegare le barriere coralline e, in definitiva, fornire quantità più affidabili di pesce in un ecosistema” ed avere quindi "ricadute molto positive su pesca e turismo".
Per il collaboratore di Harrison, Michael Bode, della Queensland University of Technology, le piccole aree protette insulari sono paragonabili a un saggio investimento delle risorse economiche: “Le aree marine protette sono come gli stock finanziari, se investi in tante piccole riserve invece di concentrare tutti i tuoi sforzi in un’unica grande riserva, garantisci un approvvigionamento stabile di pesce sia ai pescatori sportivi che a quelli commerciali”. Insomma, non è sempre necessario istituire grandi parchi integrali. Gli autori hanno monitorato più di 1.500 giovani pesci presenti in piccole aree protette utilizzando tecniche di “fingerprinting” del DNA e hanno scoperto che “Queste reti di Riserve generano una fonte affidabile di prole per ricostituire gli stock ittici sfruttati nelle barriere coralline circostanti”. Secondo Harrison da due importanti rapporti internazionali che illustrano il netto declino del mondo naturale, il Living Planet Report 2020 e il Global Biodiversity Outlook 5, emerge chiaramente che “I governi di tutto il mondo non sono riusciti a raggiungere nessuno degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite sulla conservazione della biodiversità”. Sebbene le aree oceaniche protette siano triplicate negli ultimi dieci anni, gli obiettivi rimangono ben al di sotto della raccomandazione di una protezione di almeno il 30% suggerita dall’International Union for Conservation of Nature (Iucn). Per questo “C’è un urgente bisogno di ulteriori discussioni sul valore delle reti di riserve marine, sia a livello locale che internazionale. La nostra ricerca è un tempestivo promemoria sul valore delle reti marine nella protezione non solo della biodiversità, ma anche del turismo e di milioni di persone a livello globale i cui mezzi di sussistenza dipendono da ecosistemi sani”. Una lezione da tener presente!
Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.