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Il populismo del Coronavirus che affonda l’America Latina
Conservazione
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Foto: Unsplash.com
Da tre settimane almeno il nuovo epicentro della pandemia si è dirottato sull’America Latina, dove l’aumento dei contagi da COVID-19 è vertiginoso, arrivando a oltre un milione e mezzo di casi totali confermati a livello continentale e un numero di morti che ha superato la soglia dei 75 mila (entrambi numeri ampiamente sottostimati, come sappiamo, a causa della bassa predisposizione a fare tamponi di questi paesi). La curva dei casi è trainata soprattutto da paesi come il Brasile, preceduto solo dagli Stati Uniti per numero di contagi nel mondo, che concentra più della metà delle vittime legate alla pandemia. Messico, Perù e Cile seguono nella triste classifica continentale di paesi più colpiti, e con maggiori tassi di diffusione, secondo le statistiche ufficiali che emergono dalla Johns Hopkins Coronavirus Resource Center, mentre in Argentina si è registrato il record di infetti in una giornata. I nuovi centri nevralgici mondiali del virus, dove le misure di contenimento hanno difficile applicazione e reperire dati affidabili è impossibile. I governi hanno ormai perso il controllo sull’espansione del virus e non sono più in grado di trattenere in casa i loro cittadini.
Questo è lo specchio latinoamericano di un virus tutt’altro che sconfitto. Dopo mesi di lockdown, rispettate più o meno scrupolosamente dai cittadini, la situazione è diventata insostenibile. I lavoratori informali, ambulanti e microimprenditori, senza risparmi, paracaduti sociali, garanzie e sostegno dagli istituti di credito, non possono più reggere lo stallo di entrate provocato dalla chiusura forzata delle loro piccole ma fondamentali attività. E di fronte alla minaccia per la sopravvivenza molte persone si sono nuovamente riversate nei propri esercizi commerciali o sulle strade delle città a riattivare un briciolo di vendite risicate, con protocolli sanitari purtroppo precari. Questo, se da un lato permette a molte famiglie di riaffacciarsi sul mercato con la speranza di recuperare il guadagno perso, dall’altro rende impossibile una tregua nella propagazione del contagio, destinato a non placarsi mai, come la ruota di un mulino.
L’impressione che da queste parti la lotta contro il feroce avanzamento del coronavirus s’infiacchisca e possa prolungarsi ben oltre le aspettative, lo dimostra anche la spregiudicata gestione dell’emergenza sanitaria da parte di tanti governi. Nonostante il numero di contagi aumenti a ritmi molto elevati, in Brasile le città di San Paolo (la più popolata con oltre 12 milioni di abitanti) e Rio de Janeiro (epicentri virali) hanno riaperto negozi e centri commerciali, nell'ambito di un processo di ripartenza graduale. Questo succede sotto l’insistente pressione di Jair Bolsonaro, che caldeggia la riattivazione economica praticamente dall’inizio delle restrizioni, in aperta collisione con i governatori locali che preferirebbero adottare un atteggiamento più prudente. Bolsonaro aveva infatti rifiutato di applicare misure di confinamento a livello nazionale scatenando uno scontro aperto e folle con i governatori e sindaci che le avevano adottate.
Seguendo poi le orme del suo omologo americano Donald Trump, Bolsonaro ha minacciato di ritirare il suo paese dall'OMS. "Gli Stati Uniti si sono ritirati dall'OMS, e noi lo stiamo studiando per il futuro. O l'OMS lavora senza pregiudizi ideologici o anche noi ce ne andremo. Non abbiamo bisogno di estranei che offrano la loro opinione sulla salute in Brasile", ha detto alla stampa il presidente, che tutt’ora inneggia alla clorochina per curare il Covid-19. Pochi giorni prima aveva alzato l’ennesimo scandalo dichiarando che si dispiaceva per le vittime, ma che alla fine “tutti dobbiamo morire”, frase riportata su tutti i quotidiani internazionali. Intanto l’estrema destra del paese spinge per una svolta autoritaria capitanata da Bolsonaro, in stile Orban. Altra seria preoccupazione riguarda le popolazioni native di tutto il territorio amazzonico, zone vulnerabili senza una reale copertura ospedaliera, dove il virus ha già fatto breccia e potrebbe divampare come il fuoco nella stagione degli incendi.
Ma le curve dei contagi salgono pressoché dappertutto e diventano ogni giorno più allarmanti, con picchi in Cile e Panama. Il Messico è un altro stato di proporzioni enormi, la cui amministrazione fin da subito aveva preso sotto gamba il virus ed ora si ritrova in ginocchio con incrementi di malati ai massimi, e oltre 17 mila deceduti. Una realtà così diversa da quella proclamata solo poche settimane fa. Il Perù segue a ruota, complice una cattiva gestione medica, con scarse risorse di ossigeno e ventilatori per i pazienti più gravi. D’altronde anche il paese guidato da Martín Vizcarra non vanta un sistema sanitario sufficiente, soprattutto fuori dai centri urbani, e nelle zone più remote andine e tropicali. Anche in Ecuador si sono riprese le attività, senza che l’ondata di contagi subisca un freno, e senza presentare un piano strategico esaustivo per le prossime fasi, ma più semplicemente assecondando l’umore generale. Inoltre, il fattore clima con alta probabilità aggraverà le attuali condizioni, già pesantissime. Secondo l’Organizzazione Panamericana della Sanità (OPS), da un lato l'inizio dell'inverno australe aumenterà l'incidenza delle malattie respiratorie in Sud America, soprattutto nel Cono Sur, dall’altro l'intensa stagione degli uragani previsti per i prossimi mesi nell'Atlantico complicherà ancora di più la risposta alla pandemia nel Nord e Centro America, particolarmente nei Caraibi.
Il dibattito, quasi ridondante per noi europei, pionieri nella lotta al virus, riempie programmi e palinsesti, e da queste parti il peggio non sembra avere una fine. “Una crisi sanitaria che precede la recessione più grande della storia della nostra regione, e che potrebbe diventare crisi alimentare” ha detto Alicia Bàrcena, segretaria generale della Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL). “La scelta tra salute ed economia è un falso dilemma. Se la pandemia non sarà controllata, non ci sarà nessuna ripresa economica", ha ammonito il segretario generale dell'OCSE Àngel Gurría dal Messico, sottolineando il divario temporale dello scoppio epidemiologico rispetto all’Europa.
Certamente una regola si conferma a livello mondiale, dall’Inghilterra alle Americhe: un facile colpevole si palesa negli slogan populisti, nelle valutazioni a naso, nei discorsi di pancia, nel teatrino inconcludente di una politica scadente e incompetente, che mai si responsabilizza per gli errori commessi e che costantemente troverà nuove fandonie con cui annaffiare il popolino. Mentre le vittime sono sempre le stesse, povere e credulone, soggiogate dal demagoga che appare sugli annunci ufficiali, e che rimette sui loro tavoli le false speranze di un futuro migliore. Non solo la pandemia, ma anche la razionalità, ha le ombre di una battaglia persa.
Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.