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Aree protette, ma uccelli a rischio
Conservazione
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Foto: Unsplash.com
Le zone umide rappresentano a livello mondiale uno degli ambienti cruciali per la biodiversità e per i servizi che offrono all’uomo, ma al tempo stesso anche uno di quelli più a rischio che, soprattutto nelle aree a più alta densità industriale, hanno affrontato secoli di bonifiche, inquinamento, regimazione e distruzione che ne hanno stravolto i naturali equilibri. Negli ultimi decenni l’istituzione di numerose aree protette nate per promuovere la conservazione di lungo periodo della biodiversità e degli ecosistemi ha rappresentato un significativo passo in avanti per la tutela di molte realtà, ma non abbastanza per le zone umide, che rappresentano un habitat chiave a livello mondiale.
Un recente studio condotto dal MUSE - Museo delle Scienze di Trento, da poco pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Biological Conservation, ha valutato l’effetto di 30 anni di protezione delle zone umide in Trentino sull’avifauna acquatica: gli uccelli sono infatti un ottimo “bioindicatore”, ovvero forniscono importanti informazioni sullo stato di salute degli ambienti che frequentano e offrono, pur se involontariamente, preziosi suggerimenti per il miglioramento delle azioni riguardanti sia la conservazione della fauna sia la gestione ambientale. I risultati, elaborati a partire dall’analisi dei monitoraggi ornitologici effettuati tra il 1989 e il 2019, hanno permesso di valutare l’efficacia dei primi 30 anni di protezione degli ultimi lembi di zone umide nelle vallate alpine del Trentino (Riserve Naturali, L.P. 11/2007).
Con quali risultati? Il quadro che ne è emerso è decisamente articolato ed evidenzia come il 43% delle specie censite sia andato incontro ad espansione, mentre il 26% abbia visto ridursi la propria distribuzione nelle 26 zone umide protette considerate. Un sistema di protezione creato con un approccio lungimirante che, come sottolinea il naturalista e responsabile della Sezione di Zoologia dei Vertebrati del MUSE Paolo Pedrini, è stato capace di “salvare gli ultimi preziosi “scampoli” di zone umide naturali del territorio provinciale e favorire il ritorno o l’espansione, come anche l’insediamento, di specie un tempo localizzate o che addirittura non nidificavano sul territorio provinciale”.
Grazie anche al coinvolgimento di Studio Albatros per gli aspetti di consulenza scientifica durante la fase istitutiva, la ricerca ha permesso di far emergere risultati importanti, come ad esempio la correlazione tra numero di habitat occupati (da 1 a 8) e trend delle specie: le specie con esigenze più severe e specifiche, come ad esempio il cannareccione, i rallidi e il migliarino di palude, sono infatti risultate in calo (e di solito coincidono con chi ha già uno status sfavorevole in termini di conservazione a livello nazionale), mentre quelle generaliste e maggiormente in grado di adattarsi ad habitat piuttosto diversi tra loro sono in espansione (di solito gli uccelli più comuni, che registrano lo stesso andamento favorevole anche a livello nazionale ed europeo).
Una lettura che, se da un lato rappresenta un successo rafforzato dal generale livello di tutela diretta (es. divieto di caccia), presenta d’altro canto possibili margini di miglioramento, suggerendo come la conservazione delle aree umide, se condotta senza specifiche attenzioni all’avifauna e senza un programma di gestione ad ampia scala, non sia sufficiente al fine di preservarne le comunità, soprattutto quelle più specializzate che, avendo un legame più forte ed esclusivo con particolari habitat, rischiano una maggiore contrazione. A questo proposito Pedrini ricorda come nel trentennio considerato gli interventi provinciali abbiano di certo impedito la scomparsa di un grandissimo patrimonio naturalistico e faunistico di inestimabile valore e spesso poco considerato, ma come al contempo sia indispensabile “estendere le nostre attenzioni anche al di fuori dei confini delle aree protette. Come? Ad esempio, riqualificando o ripristinando le aree degradate o bonificate ai margini di terreni coltivati, ricreando canneti lungo le rive di laghi e fiumi principali, ampliando la rete di fossi e canali, per migliorare così la connettività ecologica fra i tanti piccoli ambienti residuali, come le zone umide, utile alla conservazione degli “specialisti” ma anche ad una più generale riqualificazione ambientale del paesaggio delle nostre vallate a forte fruizione antropica”.
La strada è segnata, non ci resta che continuare a percorrerla nella giusta direzione.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.