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68° Assemblea Generale dell’ONU: tra parole e fatti concreti
Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Agenda Globale 2030)
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Impressionante quanto poco i media italiani abbiano parlato della 68° sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU, che si è aperta martedì 23 settembre a New York. Forse perché la settimana di incontri di inizio autunno è un consueto appuntamento annuale, o più probabilmente perché gli interventi programmatici dei leader mondiali sulle prospettive e sulle priorità per il futuro del proprio Paese e dell’intero globo non fanno accendere i riflettori e gli indici di ascolto tanto quanto il matrimonio di una showgirl o l’ultima iniziativa politica dell’orticello “di casa nostra”. Una constatazione che in parte purtroppo contraddice il monito del Segretario Generale dell’ONU Ban-Ki-moon ai grandi della terra affinché agiscano con gli occhi della comunità internazionale puntati su di loro. “Nelle strade e nelle piazze di tutto il mondo, le persone stanno facendo pressione su chi è al potere. Vogliono ascoltare i leader del mondo. Vogliono sapere che stiamo facendo tutto il possibile per garantire una vita di dignità a ogni essere umano”. Uno stimolo per tutti, governanti e società civili, ad agire e a controllare e indirizzare chi amministra.
Di certo anche la notizia-volano dell’informazione internazionale, ossia la questione siriana, ha rubato la scena a un’Assemblea di fatto priva di poteri esecutivi di intervento, se non di indirizzo generale. La parola è stata ceduta dunque al Consiglio di Sicurezza che ha adottato giovedì 26 settembre una risoluzione piuttosto debole (nonostante la rilevanza che ha ottenuto), -perché non ricade sotto l’ombrello del capitolo 7 della Carta ONU sulla “minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali”, il solo che consente di autorizzare un ipotetico intervento degli Stati membri dell’Organizzazione, - che sollecita il governo della Repubblica Araba Siriana a provvedere al disarmo delle armi chimiche in suo possesso (come accertato dal rapporto ONU di pochi giorni fa). Tanto è bastato per sottrarre i ripetitori mediatici dai microfoni messi a disposizione di capi di Stato e di governo del mondo.
Ora che molti dei “big” reali e presunti sono già sfilati in Assemblea si possono tirare sommariamente le linee di questi discorsi. Quasi tutti gli intervenuti si sono soffermati sul conflitto in Siria, un’attenzione che peraltro richiamava i contestuali lavori del Consiglio di Sicurezza, e hanno auspicato un’azione internazionale che possa addivenire a scongiurare questa ecatombe di uomini, donne e bambini che perdura da più di due anni e mezzo. Differenze chiaramente emergono tra chi, come la presidente del Brasile Dilma Rousseff, ha parlato di “far cessare l’uso delle armi chimiche o convenzionali del governo e dei ribelli”, guardando al negoziato quale unica prospettiva possibile, e chi ha preso un po’ meno le distanze fra le parti.
Ampio spazio è stato riservato da Barack Obama all’azione diplomatica che gli Stati Uniti stanno mettendo in atto per dare una soluzione al conflitto in Siria: una soluzione dettata dalla sfiducia che un’operazione militare possa condurre a una pace duratura e, al contempo, un evidente tentativo di differenziare la politica della propria presidenza da quella del suo predecessore (una prospettiva forse più ideale che reale che nel 2009 guadagnò a Obama il Premio Nobel per la pace). “La messa al bando dell’uso delle armi chimiche, anche in guerra, è stato concordato dal 98% dell’umanità. Si è nutrito dei ricordi cocenti dei soldati soffocanti nelle trincee, degli ebrei massacrati nelle camere a gas, delle decine di migliaia di iraniani avvelenati”. Di pari passo va però l’impegno statunitense a fornire ai siriani strumenti di autodeterminazione, poiché “non credo che né l’America né qualsiasi altra nazione dovrebbe stabilire chi governerà la Siria, sarà il popolo siriano a deciderlo. Tuttavia, un leader che massacra i suoi cittadini e uccide coi gas i bambini non può recuperare la legittimità per sanare un Paese dilaniato. L’idea che la Siria possa in qualche modo tornare allo status quo di prima del conflitto è pura fantasia”.
Molte parole dunque, come avviene sempre in questi casi. E sulle parole si è anche giocata la nuova possibile fase dei rapporti tra Stati Uniti e Iran con la “storica” telefonata tra i due Presidenti. Segno del sorgere di un nuovo panorama in quella tormentata regione? Troppo presto per dirlo. Comunque sia è l’Iran a uscire rafforzato da questa complessa partita diplomatica.
Una cosa concreta è invece l’entrata in vigore del Trattato sul Commercio delle Armi, ratificato pochi giorni fa dall’Italia, che potrebbe essere un passo significativo nella direzione di una differenziazione “etica” della armi da qualsiasi altro tipo di merce prodotta e venduta da uno Stato. Una connessione evidenziata nel suo intervento dal premier italiano Enrico Letta, che si è accodato agli inviti espressi anche dagli altri capi di governo a individuare quanto prima una soluzione per la crisi siriana sotto gli auspici dell’ONU, definita “massimo tutore della pace”. Parole da serbare con cura, nel caso in cui il governo italiano decidesse ancora una volta di unirsi a una imprecisata cordata di volenterosi che si erga a difensore della democrazia da esportare a tutti i costi, senza l’avallo degli organi ONU preposti proprio a tale scopo.