
www.unimondo.org/Guide/Sviluppo/Obiettivi-per-lo-Sviluppo-Sostenibile-Agenda-Globale-2030/La-rivoluzione-gentile-di-Jane-Goodall-268105
La rivoluzione gentile di Jane Goodall
Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Agenda Globale 2030)
Stampa
Immagine: Youtube.com
Ho avuto il piacere di incontrare Jane Goodall in diverse occasioni, durante congressi scientifici internazionali e anche durante incontri meno formali. Ogni volta, emergeva con forza la sua capacità di trasmettere un coinvolgimento profondo, non solo pratico ma anche emotivo, verso tutto ciò che lega l’essere umano al mondo naturale. Nei suoi occhi e nel suo modo di raccontare il lavoro sul campo si percepiva una convinzione incrollabile: noi non siamo entità separate dalla natura, ma parte integrante di un continuum che ci unisce agli altri viventi.
Jane è oggi un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di etologia e, in particolare, di primatologia. Le sue osservazioni hanno aperto nuove strade a interi filoni di ricerca, costringendo la comunità scientifica a rivedere vecchi dogmi e a riformulare molte delle certezze che separavano l’uomo dagli altri animali. Le scoperte maturate a Gombe, sito di studio in Tanzania dove ha lavorato per quasi tutta la vita, hanno infatti contribuito a rafforzare una visione gradualista dell’evoluzione, mostrando come tratti comportamentali complessi che un tempo si credevano esclusivi della nostra specie trovino invece radici profonde anche in altre linee della storia naturale.
Tra i suoi contributi più dirompenti c’è certamente l’osservazione dell’uso di strumenti da parte degli scimpanzé. Era il 1960 quando, armata soltanto di un binocolo, un taccuino e di una pazienza infinita (dote necessaria per un etologo), Jane vide con i propri occhi un maschio di nome David Greybeard inserire un ramoscello in un termitaio per catturare insetti. Non si trattava soltanto di un gesto pratico: implicava la capacità di immaginare un oggetto come estensione del proprio corpo, di modificarlo per un fine specifico e di trasmetterne l’uso ad altri individui. Con questa singola osservazione cadde uno dei muri più solidi che l’uomo aveva eretto a propria difesa identitaria: non eravamo più gli unici “fabbricatori di strumenti”. Ma non era finita qui. Goodall dimostrò che diverse comunità di scimpanzé sviluppano tradizioni proprie, modi distinti di usare oggetti e di interagire con l’ambiente. Era l’evidenza di una vera e propria cultura animale, un concetto che fino ad allora si riteneva patrimonio esclusivo della nostra specie.
Le sue ricerche portarono poi alla luce un mondo sociale di sorprendente complessità. Gli scimpanzé non erano più descrivibili come creature semplici, guidate unicamente da istinti primordiali, ma come individui capaci di stringere alleanze, costruire gerarchie, manifestare cooperazione e al tempo stesso esercitare violenza organizzata. La cosiddetta “Guerra dei quattro anni degli scimpanzé di Gombe”, un conflitto tra gruppi rivali documentato tra il 1974 e il 1978, rivelò la capacità di pianificare attacchi, difendere territori e mantenere strategie a lungo termine. Parallelamente, Goodall scoprì che gli scimpanzé non erano nemmeno strettamente vegetariani: potevano coordinarsi in battute di caccia per abbattere piccoli mammiferi o altri primati, come i colobi rossi, condividendo la preda con regole di scambio e reciprocità.
Ma se la violenza e la competizione colpirono l’immaginario collettivo, non meno sconvolgenti furono le prove del fatto che questi incredibili animali provano emozioni. Jane documentò madri in lutto che vegliavano i cadaveri dei loro piccoli, adulti che confortavano un compagno ferito, femmine che si prendevano cura di cuccioli non loro. Si trattava di comportamenti che rivelavano un mondo emotivo articolato, ricco di sfumature che difficilmente potevano essere liquidate come semplici riflessi istintivi..






