Obama, una delusione made in USA

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11 Settembre, dodici anni dopo. A seguito della tragedia delle torre gemelle, doveva cambiare il mondo, nulla sarebbe stato più come prima. Ci sono stati certamente ulteriori attentati e devastanti conflitti, come in Afghanistan o in Iraq, di cui paghiamo ancora le conseguenze. Bin Laden è morto, da cinque anni alla Casa Bianca non c’è più Bush. A livello internazionale però sono stati ben altri gli elementi che hanno influenzato lo scenario politico: la crisi economica, l’emergere di alcuni paesi come potenze globali, il malessere che esplode qua e là come hanno dimostrato le sollevazioni nel mondo arabo, ma anche in Brasile o in India. Per il resto la storia si ripete. Dopo la rivoluzione arriva la restaurazione, come è avvenuto in Egitto. Le guerre civili restano terribile teatro di violenza e di morte, come testimonia la Siria. Sullo sfondo la “politica di potenza” (simile a quella dei regni europei a fine ‘800) dei vari attori più o meno protagonisti: Stati Uniti, Russia, Cina, Stati con influenza regionale come per esempio Iran o Arabia Saudita. L’Europa resta divisa e latitante, sulla via di un irreversibile declino.

Le grandi questioni dei cambiamenti climatici, delle nuove fonti di energia, dei futuri conflitti per l’acqua o per le materie prime, della povertà e dello sviluppo umano restano inalterate. A livello politico gli organismi internazionali come l’ONU o sono delegittimati o non riescono a svolgere con pieno successo il loro mandato.

Si potrebbe proseguire a lungo con questi discorsi. Oggi però occorre parlare di Stati Uniti e in particolare del presidente Obama. Chi suscita grandi speranze, finisce per incorrere in critiche e per generare disillusione. Così è accaduto anche per lui. Non si può dire però che l’elezione del primo presidente afroamericano abbia modificato sostanzialmente la situazione mondiale. Obama ha marcato una differenza nella politica interna, ma fuori dei suoi confini è stato ambiguo e inefficace. Non lamentiamoci: meglio non fare nulla rispetto ai disastri di Bush. Obama, a cui incredibilmente è stato assegnato il Nobel per la pace sull’immagine e non sulla sostanza, non è riuscito a imporre la sua agenda alternativa, se mai ne avesse avuta una. “Sono stato eletto per finire le guerre, non per iniziarle”, ha detto il Presidente americano per giustificare l’annunciato, poi smentito, poi sospeso, poi rimandato attacco alla Siria. Obama ha chiuso le guerre di Bush per sfinimento dei propri soldati, per calcoli economici e per l’ostilità della propria opinione pubblica: le truppe a stelle e strisce se ne vanno, lasciando i rottami di armi ed equipaggiamenti e le macerie di interi territori. Nessuna strategia diversa sembra essere in campo.

Obama aveva fatto grandi discorsi sulla democrazia proprio in Egitto ma non ha potuto chiamare con il suo nome il colpo di stato di luglio. Le “primavere arabe”, se mai sono esistite, finiscono inesorabilmente in rigidi inverni autoritari. Le situazioni poi si incancreniscono: in Medio Oriente ciò significa che presto o tardi scoppierà una guerra di ampia portata. In Siria c’è già. Con tutta probabilità un intervento militare americano farebbe deflagrare tutto. Ma la decisione di Obama di trovare una via di uscita onorevole ai suoi tentennamenti dando credito alle buone intenzioni di Assad sa tanto di una ritirata strategica non dalla guerra, ma pure da una via diplomatica che cambi la situazione. Non vediamo delinearsi questa via. Troppi interessi in gioco: il petrolio, l’egemonia, la sicurezza di Israele. E poi l’incapacità araba di andare oltre il confronto muscolare o di superare antiche divergenze. La violenza e la guerra mantengono il loro fascino. Assad o chi per lui potrebbe consegnare le famose armi chimiche. Cambierebbe qualcosa? Sia chiaro: noi non siamo per l’intervento militare. Forse adesso la diplomazia può avere un vero spazio di azione: ma se non si è fatto nulla prima, perché tutti dovrebbero ora cambiare atteggiamento? Occorre però fermare in qualche modo la guerra in atto. Come fare? Buio pesto. O pensiamo che sia Putin a stare dalla parte dei pacifisti? L’inadeguatezza delle classi dirigenti, la logica dell’interesse, il desiderio di denaro (dalla vendita delle armi al commercio di petrolio) rendono il mondo più insicuro.

Obama ha deluso. Forse è vittima delle lobby. Si dice sempre così. La superpotenza americana resta a metà del guado. Vuole imporre o mantenere l’ordine globale, ma non riesce a vincere, tantomeno a convincere. La realtà è troppo complessa, forse non si ha il coraggio di intravedere vie alternative.

Nel nostro piccolo continueremo a scrivere riflessioni, a evidenziare notizie che magari a prima vista sembrano inezie. Lavorare per la pace con l’informazione: anche questo è un compito importante.

Piergiorgio Cattani

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