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Pane e carbone
Giustizia e criminalità
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Foto: M. Canapini
Nel febbraio 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso un paio di settimane tra Calais (estremo lembo di terra francese ed ennesimo luogo di passaggio per singoli e comunità in transito) e Bruxelles. Condivido un estratto di quel racconto corale, raccolto tra banchine portuali e informali assembramenti.
Sotto il cielo di Calais campeggiano dialetti e nazionalità: comunità di sudanesi, afgani, eritrei come Alazar, ex studente di medicina. “L’Eritrea è sede di una delle più longeve e repressive dittature al mondo. Da quando ha conquistato l’indipendenza dall’Etiopia nel 1993, dopo più di trent’anni di guerra, il nostro paese è di fatto una dittatura totalitaria nelle mani del Presidente Isaias Afwerki. Nel 1998 è scoppiata una nuova guerra con l’Etiopia per dispute territoriali, i cui combattimenti sono terminati nel 2000. Al termine dei recenti scontri il governo eritreo ha esteso il servizio militare di leva obbligatorio, in maniera indefinita, per tutta la popolazione compresa tra i diciotto e i quarant’anni. È inaudito! Il PIL è tra i più bassi al mondo e l’economia si basa principalmente su agricoltura, allevamento e pesca. L’Eritrea è agli ultimi posti per la libertà di stampa e non esistono organi di informazione indipendenti, ma solo fonti controllate dal governo. Non possiamo fare altro che provare a saltare, ogni giorno. Il problema peggiore qui a Calais sono i cani. Hanno un olfatto molto fine e ci fiutano quasi sempre. Sono arrivato otto mesi fa, non ho famiglia, solo due amici che mi aspettano a Brighton. Senza di loro sarei perso”. Secondo le stime dell’UNCHR, nel 2015, circa 5.500 minori (eritrei) non accompagnati hanno richiesto asilo in Europa. Equivale al 6% di tutti i minori non accompagnati richiedenti asilo in Europa in quell’anno. “Viviamo sotto quel ponte laggiù - indica un canalone vicino l’ingresso dell’Eurotunnel - La polizia ogni tanto si fa vedere, straccia le tende, prende a calci qualcuno, scatta fotografie. È una facciata costruire reticolati. Non siamo mica criminali. Eppure, anche lungo le stradine secondarie, lontane tre chilometri dal porto, stanno ergendo nuove barriere. Dal nostro rifugio spiamo i tir di passaggio e aspettiamo il momento buono per tuffarci”. Nel pomeriggio conosco Serena, studentessa di Scienze Politiche a Bologna, da due mesi a Calais per un progetto Erasmus. Spilletta di Mediterranea Saving Humans infilzata allo zainetto di cuoio. “Per evitare i controlli capillari a cui tutte le vetture sono destinate, alcuni ragazzi si gettano dalla chiusa del porto raggiungendo le banchine bagnati fradici. Guarda questo video, me l’ha mandato Said questa mattina. È diretto a Oxford, dove lo aspetta Henriette, un’ex volontaria… costruire un muro non è mai una risposta. Sembra di vivere dentro un incubo. Una società distopica, militarizzata, malata”. Dallo schermo è visibile nitidamente la striscia d’asfalto che corre furiosa, le indicazioni per Londra, un sorrisetto nervoso elargito da un ventenne nero di fuliggine, rannicchiato tra una ruota di scorta e la marmitta. Peshin Smatri, ventidue anni, figlio di un’aristocratica famiglia di Sulaymaniyya, ha tentato cinque volte di infilarsi sotto un tir, ma con scarsi risultati. “Ho lasciato tutti gli affetti in Iraq: quattro sorelle, i genitori, la fidanzata. I miei tre fratelli vivono sparpagliati tra Finlandia, Gran Bretagna e Germania. La polizia francese non mi ha trattato male, a parte una volta che mi ha picchiato e lasciato senza scarpe lungo una tangenziale. Mia madre piangeva molto prima che partissi. Ho pagato quindicimila euro da Sulaymaniyya a Calais, novemila solo per raggiungere l’Italia dalla Grecia. Se paghi non ci sono grossi problemi. Per superare il canale della Manica mi hanno chiesto seimila euro, mentre alle famiglie, solitamente, ne chiedono dodicimila. Appena otterrò i documenti farò in modo che la mia fidanzata mi raggiunga nel Regno Unito”.
Il furgoncino rosso di Care4Calais, un’associazione umanitaria attiva sul territorio, richiama gruppetti e solitari. Intravedo una testa calva, due occhi luminosi: “Le mie impronte digitali sono state prese in Danimarca, ma ho lasciato l’Iran nel 2015. La vita sarebbe più facile se viaggiassi da solo, ma devo prendermi cura di mia moglie e di mia figlia. - racconta Farhad Mosapur, ventisette anni - Siamo approdati col barcone a Mitilene e la regione della nostra fuga è semplice: come mio padre e mio zio prima di me, sostenevo il Partito Democratico Curdo, che si batte attivamente per l’autodeterminazione del nostro popolo, auspicando uno Stato indipendente. Non è bastato lottare e indignarsi. Da nove mesi viviamo dentro un hotel. I volontari ci passano il cibo, non abbiamo spese vive, ma moralmente siamo a terra. Viviamo praticamente di assistenza. Vorrei tanto tornare a casa ma se torno mi impiccano, non sto scherzando! Mia moglie è caduta in depressione, più di una volta ha provato a tagliarsi le vene. Prima di venire qui devi sapere che il governo danese ci ha spediti in un campo d’accoglienza sull’isola di Bornholm, situata nel mar Baltico, a centosessanta chilometri a est di Copenaghen e a circa trentasette chilometri dalla costa svedese. L’arcipelago di Christiansø è più a est della Danimarca e non appartiene ad alcun comune, ma è amministrato direttamente dal Ministero della Difesa. Con un escamotage legato alle difficoltà psichiche di mia moglie siamo riusciti a scappare e sul confine ho stracciato i documenti. Ora siamo in attesa di un passaggio illegale, ma non valiamo niente, non abbiamo diritti. Quando mia moglie è stata male non abbiamo nemmeno ricevuto cure: per venti minuti, col calo di pressione, ha visto letteralmente tutto nero. Nessun ci ha dato una mano. Un amico vive in un campo d’accoglienza da tredici anni, i figli sono ben integrati e non vuole andarsene per nessun motivo. Ma io, a volte, penso quasi che sia meglio tornare in Iran e farsi impiccare, anziché vivere così in Europa. Mio padre ha venduto i gioielli di famiglia per permetterci di essere qui; sta pure pensando di vendere la nostra fattoria alle porte di Qom, ma non gliel’ho permesso… Anche se dodicimila euro ci farebbero comodo… È il prezzo che chiedono per raggiungere l’Inghilterra”. Mi incammino verso L’Unitè de Santè Mentale Adultes Georges Cabal, per un’ulteriore intervista. Di Saeid Nasri, trentaquattro anni, so davvero poco. E, quel poco che so, rende le ginocchia burrose. Saeid, utente psichiatrico, vive in Europa da sei anni. Alle spalle, un’infanzia difficile costellata di depressioni, galere, il suicidio del padre. La sopravvivenza giornaliera dentro la Jungle non ha di certo giovato all’umore già fragile del giovane, che al secondo piano del presidio ospedaliero giocherella con una penna a sfera. “Gli altri hanno qualcuno che li aspetta. Io no, sono solo, non so se rimanere nella Jungle o andarmene… Ma verso dove? Sto qui da tre settimane, le giornate sono tutte uguali. Dopodomani sarò dimesso e tornerò alla Jungle. Mi piace disegnare…” dichiara, prendendo dall’armadietto un quadernino con copertina rigida. La stanza è asettica, numero 103; due ricambi, uno spazzolino, un paio di scarpe. “Ci sono tanti rifugiati in Francia, ma cosa vuole dire rifugiato, dopotutto? Ancora devo capirlo. Da bambino tifavo il Milan, ricordo ancora qualche giocatore come Baggio o Schillaci… Sei anni in Europa e non sono ancora andato a vedere una partita allo stadio… Forse perché la vita nella Jungle mi piace troppo, non ci sono regole, solo whiskey, topi e hashish. Sogno spesso che qualcuno mi uccida, una coltellata o un colpo di pistola, e kaputt, fine”. Qualcosa nel cervello di Saeid si è inceppato. Passeggiamo attorno all’edificio, l’orario delle visite sta per terminare. Sindrome post traumatica da stress, leggo nella cartella clinica. La solitudine degli uomini fantasma.
Dove sorgeva l’immensa Jungle di Calais, vedo esclusivamente una superficie sabbiosa schiaffeggiata dal vento. Quattro eritrei giocano a carte dietro un gabbiotto, in attesa del buio profondo. “Per pattugliare il confine Dover-Calais lo Stato utilizza anche motovedette ed elicotteri. L’Inghilterra paga quotidianamente la Francia per tamponare le rotte clandestine, sia marittime che terrestri. Ne eri al corrente? I poliziotti di base a Calais, destinati a lavorare per nulla, ricevono un’extra pari a quaranta euro giornalieri. Sappiamo tutti che quei ragazzi passeranno comunque, è solo uno stupido teatrino” esclama Patrice, sessantasei anni, da sé stesso definito come uno dei peggiori musicisti della città. “Preferisco starmene in disparte, aiutare nel mio piccolo qualche ragazzo con cibo o docce calde. Il resto mi pare un enorme teatro ambulante, un gioco fin troppo grande da poter gestire, dove a fare affari non sono solo le autorità, come molti pensano, ma anche le Ong. I poliziotti pescano qualche sfortunato (non potrebbero incarcerarli tutti, è impossibile, sono più di duemila) e le associazioni ricevono soldi per sfamarli e postare foto sui social. È senza via d’uscita la situazione, credimi. Senza togliere il fatto che ai calesiani interessa poco se dei ragazzi muoiono di fronte al loro mare. Viviamo di business da decenni, da sempre trasportiamo persone da Parigi a Londra. Fidati, i locali sono molto più preoccupati della Brexit che dei migranti”. L’ultima notte passeggio e incrocio sguardi nella parte vecchia della città. Valicando le mura di cinta del cimitero locale, trovo quel che cercavo: l’ineluttabilità della morte. Dormienti sotto un rettangolo di terra smossa, tre delle vittime di quello “stupido teatrino” menzionato da Patrice. Djellab Ammar (1981-2018), Al Fadel Saleh (1993-2015), Rezapor Sakina (1991-2014). L’odore denso dei panini McDonalds impuzzolisce le grezze tombe.