Mentre la pelle...

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Foto: M. Canapini ®

Nella luce rasoterra del mattino bambini siriani, iracheni e curdi attendono il passaggio del furgoncino didattico affittato da OCC. Uno di essi, per ingannare il tempo insegue un pollo. Il pennuto è stato liberato dal padre del bimbo, un ventisettenne di Erbil un po’ meccanico, un po’ traduttore, un po’ aiutante al servizio della ONG. “Mi chiamo Gaylan. Sebbene a Erbil o Sulaymanyya non sia in corso una guerra come in Siria, sul confine turco la tensione è sempre altissima. Il salario fisso in Kurdistan è un miraggio. Possono ottenerlo solo gli insegnanti e i poliziotti. Io mi sono laureato in Scienze Motorie ma non ho mai trovato lavoro. Il 25 settembre 2017 si è votato per l’indipendenza del Kurdistan irachenoIl referendum voluto da Barzani, anziché risolvere i problemi della regione li ha esacerbati: sono riemerse le faide interne, le difficoltà economiche, il clientelismo. Me ne sono andato appena è stato possibile, rimanendo bloccato a Polykastro. È impossibile andarsene da qui. Se non hai il passaporto puoi solo imitare quel poveraccio che due settimane fa ha tentato la via illegale per Skopje: è morto in solitudine, schiacciato da un treno nella stazione di Idomeni”. Mohamed, ventitré anni, di Aleppo, ha fatto lo stesso: “Il mio viaggio è cominciato nel 2013. Tre ore in transito dentro il campo di Bab Al Salam (la porta della pace) e poi via di corsa fino a Istanbul. Ad Aleppo salivo ogni giorno alla cittadella, un’antica fortezza posta su una collina artificiale alta circa cinquanta metri. Abitavo a un’ora di distanza, ero contento di vedere tanti europei in visita. Facevamo foto, parlavamo, ci divertivamo con poco. La mia famiglia è rimasta a Istanbul, ma per i siriani la vita in Turchia non è semplice. Veniamo discriminati, alcuni non trovano affitto, altri vengono sfruttati e non pagati, perché quando vivi in nero senza documenti è come se non esistessi. Anche volendo, indietro non ci torno, non esiste più niente ad Aleppo”. Chiedo spiegazioni sull’itinerario intrapreso, i soldi spesi e l’organizzazione, in modo da confrontare punti di vista ed esperienze. “Come si fa a mettere così tante etnie, tradizioni, religioni insieme? - si chiede Mohamed, riferendosi al campo di Moria, sull’isola di Lesbo - 7.000 persone in gabbia. Per forza la situazione è destinata a esplodere. A bordo del gommone eravamo più di sessanta, la traversata è andata bene, il mare era tranquillo e ho speso solamente mille euro (giubbotto di salvataggio compreso). All’arrivo un iraniano ha bucato il gommone con un coltello dicendo che quelli di Frontex ci avrebbero altrimenti rimandato indietro”. Si uniscono alla chiacchierata, gentilissimi e discreti, tre fratelli hazara. Il primo dei tre di formazione è architetto, il secondo farmacista, il terzo studente. “Noi Hazara siamo un gruppo etnico che vive prevalentemente in una regione montuosa dell’Afghanistan centrale, nota come HazarajatSecoli fa costituivamo la maggiore etnia del Paese, ma a causa delle continue persecuzioni oggi rappresentiamo circa il 9% della popolazione afghana. Siamo scappati perché Ammar, il medio, lavorava con l’esercito americano. Oltre al ruolo di interprete guidava il corrazzato che apriva la scorta dei militari statunitensi: era un bersaglio facile, visto come traditore. <<Dovete liberarvi di tutti i vostri zaini e borse perché sono troppo pesanti da portare sul gommone>>, ci ha ordinato il trafficante a Izmir. Giunti sulla terraferma, abbiamo tutti cominciato a colpire il gommone con dei coltelli tascabili. Sull’isola ci siamo divisi in gruppi per non attirare troppa attenzione. Noi tre siamo rimasti sempre insieme - racconta Hüseyin, il più grande - e sentendo molto freddo ci siamo seduti sopra un mucchio di pietre. Abbiamo fatto un fuoco con i cespugli secchi e siamo rimasti intorno alle fiamme per due ore a scaldarci. Una volta scaldati, abbiamo cercato il campo profughi per avere subito una brutta sorpresa: per mangiare avevamo una sola possibilità, ossia dare i soldi ai militari del campo e loro ci avrebbero portato panini con carne di maiale. Con la fame che avevamo non potevamo rifiutare, sebbene abbracciamo l’Islam”. 

Polykastro viene inghiottita dalla foschia. Abdullah, un ventenne un po’ gobbo, è impiastricciato di sudore. Il viso assomiglia distintamente al muso di una giraffa, la bocca resta in bilico tra un sorriso e un ghigno malefico. “Non sono mai andato a scuola. Da noi, in Kuwait, se non hai documenti non sei nessuno, non hai diritto all’istruzione né alle cure mediche. Non so se in Europa è diverso. Provengo da un piccolissimo villaggio rurale tra Sabah Al Ahmad e le acque del Golfo Persico. La rinomata architettura moderna di Kuwait City, che spazia dai grattacieli alle vertiginose torri, non l’ho mai vista, neppure in foto. Un po’ come mio padre, emigrato nel Regno Unito otto anni fa. Non lo vedo da allora. Noialtri siamo immigrati verso l’Iraq e la GiordaniaIn Grecia ci hanno diviso senza logica: io e mio fratello, maggiorenni, dobbiamo aspettare qui i documenti. Mia madre e mia sorella sono già in Inghilterra. Non ci hanno dato troppe spiegazioni… Per me il tempo è però molto importante. Nella vita voglio studiare, sapere, conoscere lingue, non voglio perdere ulteriore tempo”. Se ne va, schivo e storto, coi libri sottobraccio, bucando la bruma. “Daesh si è presa Mosul e taglia le teste, ma la ragione per cui sono qui, paradossalmente, sono i Peshmerga, le forze armate della regione autonoma del Kurdistan iracheno - racconta Saladino, omonimo del celebre condottiero morto a Damasco - Eravamo ricchi di famiglia, studiavo Legge. Mio padre era un colonnello dell’esercito e un anno fa, durante l’offensivo di Daesh, il governo ha dato l’ordine di reclutare chiunque fosse in grado di combattere e difendere i confini nazionali fino alla morte. In questo le autorità sono coerenti, tant’è che il termine Peshmerga indica letteralmente ‘un combattente guerrigliero che intende battersi fino alla morte’. Ma io non avevo nemmeno idea di come si maneggiasse un’arma e mio padre questo lo sapeva bene. Per due giorni si è rifiutato di portarmi con sé, il terzo giorno non si è presentato nemmeno al fronte. Per risposta gli è stato detto che, a causa del disonore mostrato in battaglia, se ne sarebbe dovuto andare per non rischiare di dover comparire di fronte alla corte marziale. Ecco tutto. Ecco perché sembro più maturo dei miei 21 anni, per tutto ciò che mi porto dentro”. Non c’è tregua. Una coppia buffa, atipica, per nulla scontata, attira la mia attenzione. Anas, 18 anni, e Amndush, 54, non hanno legami parentali, eppure parlottano affettuosamente da giorni, in disparte, come fossero padre e figlio, o zio e nipote. Solo undici mesi fa un mortaio  si è infranto contro la cucina dove Anas e famiglia stavano mangiando. Nei giorni in cui i media internazionali, a sprazzi, gettavano un occhio su Idlib martoriata da bombe e gas tossici, il petto, parte del collo e il braccio sinistro del ragazzo andavano a fuoco. Mentre la pelle infetta, annerita, gonfia e bollente lentamente si rimarginava lasciando tuttavia solchi e laceratura sul 30% del corpo, la società battibeccava: Bombe su ospedali. Tra le vittime almeno 20 bambini e 17 donne; Erdogan chiama Putin: raid inumano e inaccettabile, rischia di vanificare ogni negoziato. Trump: Colpa dell’amministrazione Obama; Siria: guerra senza fine. “Non sono triste né porto rancore. Mi sono salvato, nessuno si è fatto troppo male, questo è l’importante. Mancava l’elettricità e l’ospedale non era agibile, dunque mi hanno curato a casa con garze e olio disinfettante. Per cambiarmi le bende ammuffite mia madre ha dovuto sfidare i cecchini più volte”. Amndush dimostra venti anni di più per via di un’artrosi degenerativa e di un cuore fragile. Martedì scorso ha avuto un infarto durante la lezione d’inglese e i compagni di banco dicono che l’uomo, in un eccesso di nostalgia, abbia raccontato a tutti di quanto era forte e sano da giovane. Nello stile libero e rana degli anni ’80 Amndush non aveva rivali in Kurdistan. Adesso si limita, testardamente, a non perdere nessuna delle tante lezioni d’inglese promosse da OCC, nonostante il corpo claudicante e lo spirito abbacchiato.  

Mohamed e il coinquilino Salam mi invitano a cena. Aspettiamo il buio e camuffandomi seguo i due coinquilini dentro al campo d’accoglienza, sorto sulle piste di un aeroporto dismesso. Un paio di guardie assonnate vedono solo ombre scivolare dentro e fuori il cancello metallico: si accorgono di me esclusivamente gli abitanti. La casa dei giovani siriani, uno spoglio container appoggiato su quattro bancali, è marchiata con l’effige C15. L’interno, verniciato da strisce irregolari blu, gialle e verdi, odora di cannabis, grinder marci e joint di terra cruda. Mohamed sviene sul letto disfatto, proprio sotto il poster di Bob Marley e una mensola di oggetti esoterici. “Voglio andare in Germania o ancora meglio in Spagna. A Monaco ho un fratello, ma a Barcellona mi aspettano tanti amici. Nel 2012 me ne sono andato da Aleppo… Meglio così, preferisco non aver visto la distruzione totale della mia patria, tutti quei morti… Ho vissuto cinque anni a Istanbul lavorando come sarto. Non è vita facile, ti pagano poco, sei ricattabile e in più mica posso lavorare sempre! Nella vita voglio viaggiare e Chios è stata la via d’uscita. Cinquecento euro i siriani, mille gli iracheni” racconta Salam, affettando tre melanzane per il babaganoush, antipasto tipico mediorientale. Mohamed ronfa avvolto nel lenzuolo, i piedi nudi e sporchi. Riviste di geopolitica sparpagliate sul pavimento, pile impolverate di panni. È tutto come dovrebbe essere, orribilmente identico a uno spaccato universitario nostrano. Come una domenica mattina a Bologna, direi, tenendo da conto la disparità abissale: la brama del diritto alla libertà, il privilegio del divertimento. “È facile spostarsi tra i vari campi governativi greci?” chiedo sovrappensiero. “No! Prima vivevo nel campo della Croce Rossa a Salonicco, ma dopo un po’ che manchi ti tolgono lo spazio abitativo per fare spazio ad altri. Proponendomi come volontario in pianta stabile, le autorità hanno deciso di assegnarmi a Nea Kavala”. Dormiamo fino a mezzogiorno per sprecare tempo. È l’unica cosa che si salva, superiore alla rabbia e alla noia, il tempo inutile con cui ci riempiamo le tasche. Qualcuno spazza, si ingegna, beve caffè a capo chino, accomoda biciclette. Youssef è alle prese con un copertone bucato in più punti. Afferra con una mano un cerchione, con l’altra il residuo di uno spinello serale offerto da Mohamed. “Vivevo nel campo di Eleonas, a un’ora e trenta dalla città più vicina. Il biglietto dell’autobus, corsa semplice, costava 1.20 euro; se non stavo attento sputtanavo il misero pocket mensile semplicemente per raggiungere il centro. Ho vissuto anche ad Atene: è una babilonia di scorribande, prostituzione, razzismi. La promiscuità è totale”. Abbandono il campo profughi a viso scoperto, le guardie mi salutano strizzandomi l’occhio. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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