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Sul mangiare la sabbia
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Care4Calais - Foto: M. Canapini ®
Delia non è arretrata di un centimetro. Il Bar Hobbit, nonostante le pressioni, è rimasto al suo posto. “I numeri sono calati. Il Decreto Sicurezza sta già creando un esercito d’irregolari. Tre settimane fa una donna incinta con bimbo al seguito ha pagato 400 euro ad un passeur, per poi venir braccata dai gendarmi e lasciata sola in frontiera. Di notte. Nonostante i rischi, le denunce e i pianti, è fondamentale esserci e fare del bene. Occorre imprimere nelle menti dei fuggiaschi quanti più bei momenti positivi possibili, così da dimenticare miserie e umiliazioni. Spero che i bambini d’oggi, quando saranno adulti, ricorderanno anche il buono incontrato lungo la via”. Wahid (‘uno’ in lingua araba) è il primo cliente della giornata, 31 anni da poco compiuti. “Lavoravo nei villaggi turistici con europei, americani, asiatici molto ricchi. Chi avrebbe mai pensato di finire in mezzo a una strada o a dormire in stanze fredde dove nessuno chiede come ti senti, né qual è il tuo nome. Spendevo soldi e mi divertivo, credevo non dovesse finire mai! Organizzavo escursioni con quad e cammelli tra il deserto del Sinai e il Mar Rosso, partendo dalle spiagge di Sharm el-Sheikh. Con l’avvento al potere di Al-Sisi, che da anni tiene in ostaggio l’Egitto applicando una sistematica distruzione di ogni forma di opposizione interna, ho deciso di andarmene. Ho lavorato per un po’ come receptionist in un ristorante italiano a Il Cairo, poi grazie ai risparmi sono volato a Napoli. Un amico elettricista, per mancanza di denaro, ha intrapreso la via libica e quasi c’è rimasto secco. La gente povera continua a mangiare la sabbia”. Attraverso in corriera lo sfarzo del Principato di Monaco, bivacco sulla spiaggia di ciottoli a Nizza per approdare infine a Marsiglia, in subbuglio per le proteste antigovernative dei Gilet Gialli. Harraga sonnecchiano sotto sfarzose vetrine dove abbondano tappetti e tessuti caratteristici di Fes o Djerba, due delle principali mete del turismo europeo in Maghreb.
Le bianche scogliere di Dover annegano nel riverbero della Manica. Nel punto più stretto del canale, 34 chilometri d’acqua salata dividono la Gran Bretagna dall’Europa continentale: quaranta minuti scarsi di traghetto. Parallelamente, lamiere e reticolati avvolgono le banchine portuali di Calais, dove un giovane eritreo rimasto impigliato al filo spinato chiede aiuto ai passeggeri appena sbarcati. “Londra, Londra! Da dove partono i traghetti? Londra! Siete certi che quella nave va a Londra?” le grida sclerotiche dell’eritreo si smarriscono nel vuoto. La sede di Care4Calais, organizzazione caritatevole a sostegno di migranti economici e profughi in transito nei territori settentrionali della Francia, sono due enormi hangar situati a fianco di una concessionaria Renault. Volontari da Londra, Dublino, Cardiff, Parigi. Scarponi, giacche, saponi, calzetti donati da ogni dove. Sabbia fine che sbatte contro le inferriate gialle dei magazzini. Un the bollente per stringere mani e ascoltare David, israeliano, quattro ciuffi bianchi in testa, 22 anni: “Opero a Calais da circa due anni. Sono arrivato dopo lo sgombero della Jungle (all’epoca il più grande campo informale d’Europa), che contava 10.000 migranti e profughi, in uso da gennaio 2015 a ottobre 2016. Centinaia di agenti vennero impiegati nell’operazione, con tanto di bulldozer che rasero al suolo gli accampamenti abusivi. Ciò per allontanare e distribuire 5.466 persone (ma si stima che in realtà fossero oltre 7.000 di cui 1.952 minori) nei 301 centri di accoglienza in Francia. Con la recente nascita di vari insediamenti abusivi la situazione sta tornando a essere allarmante. Le organizzazioni umanitarie stimano 700 persone che vi stazionano, dormendo in pieno inverno in tende e baracche di fortuna. Chi si accampa a Calais e Grande-Synthe mira a ottenere un passaggio a bordo di camion in partenza per la Gran Bretagna: si registrano casi di morti tra coloro che si nascondono sotto i mezzi pesanti o salgono sul tetto per poi finire a terra o soffocati. Lo scorso mese tra le vittime c’è stato un ragazzino di appena 15 anni. Per contrastare l’assembramento di migranti a Calais, Parigi e Londra si è messo a punto un sistema di sorveglianza più stringente, affidato alla polizia francese, mentre il Regno Unito ha finanziato un muro lungo un chilometro e altro quattro metri che si aggiunge alle recinzioni di filo spinato e alle griglie che corrono lungo la strada di accesso al porto. Un progetto costato 2,7 milioni di euro alle casse del governo britannico. Non so quali confini tu abbia visto, ma quello di Calais è il più blindato. La polizia qui è brutale e con le ultime restrizioni le percentuali dei successi, (ossia dei salti andati a buon fine) si è abbassata drasticamente”. Janett Jenkyn-Jones, 65 anni, artista, insegnante, giramondo. “Negli anni’80 ho vissuto nel quartiere cinese di Honk Kong con tre figli piccoli e quattro animali da cortile. Dal 1986, come operatrice, ho cominciato a lavorare coi migranti vietnamiti. Le facce che vedo oggi a Calais sono le stesse che vedevo ogni giorno in Asia trent’anni fa. È pieno zeppo di smuggler che promettono un viaggio sicuro ma, anche fosse, chi arriva qui si troverà di fronte una fortezza quasi inespugnabile e trenta chilometri di mare severamente pattugliato” racconta a singhiozzi la donna. Manda giù un bicchierone di vino bianco e riprende: “Solitamente donne e bambini trovano alloggio o ristoro a Bruxelles; arrivano qui unicamente uomini e ragazzi soli. Ieri ne ho incontrato uno che diceva di avere 27 anni, poi 18, infine ha ammesso di essere un ragazzino di soli 14 anni, due baffetti da adolescente in viso. In pochissimi vogliono rimanere in Francia. Chi ha raggiunto Calais ha come obiettivo l’Inghilterra, a volte l’Irlanda. Contiamo ondate di profughi ma le cause sono a monte, all’origine, il baratro sta in Siria, nelle periferie irachene, nei palazzi di Kabul. Finché l’Occidente bombarda loro scapperanno, è un circolo traviato. Ne ho visti tanti ottenere la protezione umanitaria in Inghilterra ma il clima d’ostilità non aiuta”. Insieme facciamo visita a Usman Bèc, 22 anni, gambiano. Le guardie penitenziarie concedono ai visitatori mezz’ora di colloquio. Lo stanzino è umido e incassato, privo di finestre. “Interrompendo gli studi scolastici sono scappato dal Gambia all’età di 17 anni. Mio padre era un poliziotto ed è stato ucciso per vendetta in seguito alle rivolte scoppiate dopo il cosiddetto ‘massacro studentesco dell’aprile 2000’, in cui furono ammazzate quattordici persone durante una protesta a Banjul. Fin da bambino il mio sogno è l’Inghilterra. So che è il mio destino. Più che la Libia è stato difficile attraversare il Niger e il Burkina Faso. Ho perso tanti amici: chi ucciso, chi imprigionato, chi smarritosi nella propria testa. Dopodiché ho attraversato il Mediterraneo senza incidenti, ho trascorso tre settimane a Lampedusa, altre tre in giro per l’Italia, infine due giorni per raggiungere in treno la Jungle passando per il corridoio di Ventimiglia”. Usman è stato pizzicato dai vigilanti quando era già a bordo del traghetto diretto a Dover, raggomitolato nel vano di un furgone merci. Verrà deportato in Italia con un volo charter. Forse non è risaputo, ma si ha l’impressione che Germania, Austria e Francia rispediscono in Italia un numero di migranti superiore a quelli che sbarcano nel bel Paese. Si tratta dei cosiddetti Dublinanti, sbarcati in Italia come Usman, poi passati nei Paesi confinanti e infine intercettati dalla polizia e identificati in base ai dati della rete Eurodac, la banca dati europea delle impronte digitali. I Dublinanti vengono rispediti indietro come pacchi postali, verso il Paese di primo sbarco. Ciò non tiene conto né delle aspirazioni dei singoli (o dei loro legami familiari o culturali con alcuni Paesi), né delle concrete prospettive di trovare un’occupazione nei diversi Stati. Come se la Grecia, la Norvegia, Malta o l’Olanda fossero davvero la stessa cosa. “In Italia vivevo male. Non ho ottenuto la protezione umanitaria ma solo un documento provvisorio che sarebbe scaduto di lì a poco. Ho lavorato in nero in un supermercato prima di maturare l’idea di raggiungere l’Inghilterra. L’immigrazione non è un crimine. Sembra che occorra essere per forza dei profughi di guerra per emigrare, come se la ricerca di un lavoro non fosse un motivo valido”.
In un car wash abbandonato intanto Care4Calais distribuisce beni di prima necessità. Il campo informale, sorto al riparo di una montagnola di sassi e di una centrale elettrica è per certi versi simile al Dom di Bihac. Tutti i 120 migranti presenti, dagli iraniani seduti sopra i fusti esausti di birra ai nigeriani muscolosi, si lamentano del freddo e delle retate poliziesche. In nove tenteranno la via del mare questa notte. Negli sguardi preoccupati ed euforici dei compagni è possibile leggere nitidamente una domanda, mostruosa e innegabile: ce la faranno o moriranno nel tentativo? “Non siamo mica stupidi. Certo che abbiamo paura, ma nessuno di noi vuole tornare indietro. Ci sbattono in Italia, ma nessuno ci vuole. Possiamo solo andare avanti” ribadisce un iraniano basso di statura, nato alle pendici del vulcano Demavend (al centro della catena montuosa dell’Elburz), la cima più alta dell’Iran e di tutto il Medio Oriente. Our vision is a world where refugees have a safe home and bright future. Paul, il volontario più anziano, getta un’occhiata allo striscione appeso e scuote la testa. “Belli gli slogan, ma in Inghilterra quei ragazzi non se la passano mica bene. Per essere entrati illegalmente nel Paese scontano in media tre o quattro anni nei centri di detenzione. Il 2% raggiunge l’Inghilterra, il 18% viene riportato indietro, l’80% brancola nel limbo di Calais”. Al nostro fianco fischietta Jacob, storico israeliano unitosi allo staff dell’organizzazione. “Abbiamo contato cinquantaquattro decessi dal 2015. Migranti morti per malattie, freddo, botte, annegamento… centinaia in più, forse migliaia se tieni conto degli anni precedenti. Calais è da sempre una porta, forse l’unica, per raggiungere Londra. Dal comune di Grande Shynte se ne vanno masse di uomini. Lunedì prossimo ad esempio uno dei campi informali verrà spianato e qualcuno ha già fatto i bagagli”. Una distesa di pietrisco e fanghiglia rivela tracce e intimi frammenti di esistenze: assorbenti, tamponi, pannolini, un pettine, un ciuccio interrato. Ovunque gli occhi si posino intercettano muri. Barriere di contenimento, esodi.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).