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La schiavitù "volontaria" del cotone
Giustizia e criminalità
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Foto: Unsplash.com
La raccolta manuale del cotone è una pratica antica in Uzbekistan, che oggi lo rende il sesto produttore al mondo di cotone, tanto che all’irrigazione di questi campi il Paese dell’Asia centrale destina il 65% delle proprie risorse idriche e il 13% di quelle elettriche. In questa repubblica semipresidenziale de iure, ma dittatura autoritaria de facto, ogni anno le operazioni di raccolta durano dai primi di settembre alla prima settimana di dicembre e secondo gli esperti, su una popolazione totale di circa 27 milioni di abitanti, un adulto su cinque (circa 2,5 milioni di persone) e molti minorenni, ogni anno sono sfruttati nei campi di cotone. Nel 2018 un rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) delle Nazioni Unite aveva evidenziato per la prima volta “un crollo della manodopera forzata nei campi dell’Uzbekistan”. Secondo l’agenzia dell’Onu, nel 2018 il settore aveva usato 170mila manovali ridotti in stato di schiavitù, cioè il 48% in meno degli anni precedenti. Nel contempo i salari sono “aumentati fino all’85% rispetto al precedente periodo di raccolta” e i “raccoglitori sono stati pagati in tempo e in maniera corretta”. Tuttavia i risultati del rapporto dell’Ilo “Third party monitoring of child labour and forced labour during the 2018 cotton harvest in Uzbekistan” erano stati contestati dagli attivisti di Cotton Campaign, che dal 2010 denunciano le condizioni di lavoro forzato in cui è costretta la popolazione pur di sostenere l’industria più remunerativa del Paese.
Per la Cotton Campaign ci sono sì stati “sforzi significativi da parte del governo”, ma non sufficienti a cambiare “lo sfruttamento sistemico del lavoro nei campi”. Secondo i risultati di un’indagine indipendente effettuata lo scorso anno dall’ong tedesca Uzbek-German Forum for Human Rights (Ugf) su 300 visite nei campi in oltre 100 aziende, è stato possibile vedere “segnali di progresso, ma rimangono enormi sfide”, dovute soprattutto a fattori strutturali. Secondo la direttrice Umida Niyazova, “il sistema gerarchico di quote lavorative che spinge i funzionari a mandare nei campi la gente comune; la produzione centralizzata e la scarsa manodopera soprattutto nei distretti rurali che aumentano la domanda di lavoro volontario, assieme al fatto che il governo continui ad assegnate quote fisse di produzione alle regioni scaricando sulle spalle dei funzionari la responsabilità degli obiettivi di produzione, non aiuta una trasformazione del sistema di raccolta”. Per questo fino ad oggi diversi Paesi a livello mondiale, tra cui anche l’Unione Europea, hanno boicottato il cotone esportato dall’Uzbekistan, frutto del lavoro forzato e in pochi hanno creduto che lo sfruttamento dei lavoratori fosse sparito con il nuovo corso di riforme avviato dal presidente Shavkat Mirziyoyev, succeduto al compianto leader Islam Karimov.
A quanto pare, infatti, a dispetto dei proclami governativi del recente passato, in cui si affermava la fine dello sfruttamento, anche minorile, nei campi di cotone in Uzbekistan, la pratica anche durante questa stagione di raccolta autunnale continua ad essere diffusa e sistematica. Secondo quanto riferisce Radio Free Europe (Rfe/Rl), nelle scorse settimane centinaia di attivisti in tutto il Paese hanno rilevato casi di abusi e violazioni perpetrati con il pretesto del “lavoro volontario”. Quest’anno, infatti, le autorità e i ricchi possidenti uzbeki hanno pensato di trasformare la pratica dello sfruttamento in una campagna “volontaria” che consente di pagare i raccoglitori di cotone 0,10 dollari al chilo. In questo modo anche le persone più veloci nella raccolta guadagneranno al massimo un dollaro al giorno, in una nazione in cui il salario minimo dovrebbe essere di 300 dollari e i miseri pagamenti sono pubblicizzati dai funzionari governativi come “opportunità di lavoro” per famiglie con persone disoccupate o bisognose al loro interno. Per il vice-ministro uzbeko del Lavoro Bahodir Umrzakov “la raccolta quest’anno è affidata in maggioranza a famiglie povere, madri single e disoccupati classificati come individui bisognosi”. In realtà, il salario racimolato in sei giorni completi di lavoro, non basta nemmeno per acquistare un chilogrammo di carne e molti lavoratori nei tre mesi di lavoro stagionale nei campi rischiano di indebitarsi, visto che spesso il costo dei pasti viene detratto dal misero compenso e, in alcuni casi, finisce per superarlo.
Con la campagna di raccolta entrata nel vivo lo scorso mese sono stati già dirottati verso i campi “dietro pressioni e coercizione” oltre a studenti ed insegnanti, anche i dipendenti delle banche statali e gli impiegati dei ministeri. “Sono stato costretto ad andare nei campi di cotone contro la mia volontà, avrebbero mandato altri al mio posto, dando loro la mia paga mensile di 300 dollari. Tutto questo non potevo permetterlo” ha affermato a radio Rfe/Rl un dipendente di una filiale della Banca popolare nel distretto Ak-Altyn, della regione di Syrdarya. Un retaggio del passato regime sovietico, che fa guadagnare all’attuale governo oltre un miliardo di dollari all’anno sulla pelle dei raccoglitori di cotone e si trascina dietro la piaga della corruzione, oltre che quella dello sfruttamento. Non a caso stanno emergendo i casi di proprietari di aziende agricole private, che beneficiano del lavoro forzato, ed hanno stretti legami con le alte sfere di governo. Non fanno eccezione i parenti e i famigliari del presidente Mirziyoev.
Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.