La Cina tra Covid e disoccupazione

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Foto: Unsplash.com

Secondo un recente sondaggio di Zhaopin, un’importante agenzia online di selezione del personale, in Cina un terzo degli impiegati cinesi ha perso il lavoro per la pandemia di coronavirus. A quanto pare i licenziamenti hanno colpito soprattutto i colletti bianchi tra i 40 e i 50 anni, mentre il 37% degli intervistati, per la maggior parte di giovane età, ha dichiarato di aver subito un taglio salariale, il 21% la cancellazione dello stipendio e il 28% ritardi nei pagamenti. Solo il 20% dei lavoratori contattati ha detto di non aver ricevuto contraccolpi dalla crisi pandemica. Anche se il Fondo Monetario Internazionale prevede per la Cina una ripresa in questa seconda parte dell’anno, quest’anno il prodotto interno lordo nazionale ha registrato una crescita negativa del 6,8% e tra gennaio e maggio l’economia cinese ha prodotto “solo” 4,6 milioni di nuovi impieghi, 1,4 milioni in meno di quelli generati nello stesso periodo del 2019, con ricadute soprattutto sull’occupazione giovanile. Il numero dei disoccupati si era impennato a febbraio per effetto della crisi pandemica, arrivando al 6,2%, ma adesso il tasso di disoccupazione dei cinesi tra i 16 e i 24 anni è più del doppio della media nazionale e costantemente in crescita. Ad aprile, infatti, la disoccupazione giovanile ha toccato il 13,8% e le cifre reali potrebbero essere anche superiori.

Secondo il China Labour Bulletin (Clb) di Hong Kong, le cifre di Zhaopin contrastano con quelle ufficiali dell’Ufficio Nazionale di Statistica, che fanno riferimento solo ai lavoratori che hanno la residenza in aree urbane e questo significa che circa 290 milioni di lavoratori, per lo più delle aree rurali, non sono conteggiati. Per la maggior parte degli osservatori sono questi lavoratori i più colpiti dalla contrazione economica del Paese, lavoratori che hanno animato in questi ultimi mesi decine di scioperi tra il personale che lavora nei servizi, in ambito educativo e nel settore trasporti, mentre solo il 15% ha interessato gli operai delle manifatture. Stranamente anche molti lavoratori impiegati nel commercio online, considerato immune alla recessione dovuta all’emergenza Covid-19, hanno scioperato per protestare contro tagli salariali e ritardi nei pagamenti. Nel passato le aziende del terziario, le più dinamiche prima della pandemia, riuscivano ad assorbire buona parte dei lavoratori licenziati dalle industrie. Tale trasferimento di manodopera da un settore all’altro risulta però impossibile alle condizioni attuali. Per il Clb, che ha analizzato informazioni di stampa e monitorato i social media cinesi, in Cina sta montando l’insoddisfazione popolare per questa delicata situazione lavorativa, ma le azioni concrete rimangono ancora marginali a causa del rischio Covid, tanto che “Gli scioperi nei primi quattro mesi del 2020 sono stati 142, in netto calo rispetto ai 483 dello scorso anno”.

Esistono però anche delle eccezioni. I docenti nella contea di Dafang (Guizhou) lo scorso mese, dopo cinque anni di ritardi nei pagamenti degli stipendi, si sono rivoltati contro le istituzioni locali e hanno presentato una petizione al governo centrale. Questa volta però il Covid ha aggravato una situazione già drammatica. Le autorità di Pechino sono intervenute e hanno ordinato a quelle provinciali di versare al personale scolastico i 470 milioni di yuan arretrati (circa 58,7 milioni di euro) scomparsi per una probabile appropriazione indebita di alcuni amministratori di Dafang che hanno obbligato per anni gli insegnanti della contea a finanziare uno schema di credito cooperativo rivelatosi fallimentare, se non truffaldino. Il caso ha avuto una vasta eco nei media nazionali, e ha innescato un’ondata di manifestazioni da parte di insegnanti che lavorano nelle zone agricole delle province di Liaoning, Anhui, Jiangxi e Guangdong. Come mai? Indipendentemente dal caso del Dafang, in uno studio del 2016 il Clb aveva già evidenziato che i docenti cinesi, soprattutto nelle aree rurali, spesso non venivano pagati o ricevevano solo parte del loro stipendio. "Purtroppo negli ultimi quattro anni - hanno spiegato i ricercatori del Clb - poco è cambiato e già nel 2018, ad esempio, la polizia ha represso con la forza una protesta di massa inscenata dal personale docente di Lu’han (Anhui), un episodio che aveva provocato lo sdegno dell’opinione pubblica e persino le critiche del Quotidiano del popolo, organo di stampa ufficiale del Partito comunista cinese".

Intanto mentre gli insegnanti del Dafang protestano, milioni di laureandi cinesi rischiano la “disoccupazione preventiva” da coronavirus. Il numero dei laureati è cresciuto in modo costante negli ultimi 10 anni, a un tasso superiore alla capacità dell’economia cinese di produrre nuovi posti di lavoro. Il settore privato è quello che fino allo scoppio della crisi assorbiva più domande d’impiego, ma la mancanza di opportunità aumenta la competizione, spingendo verso il basso gli stipendi dei neolaureati. Così per gli 8,7 milioni di studenti universitari cinesi che si sono laureati quest’estate sarà difficile trovare un impiego che risponda alle loro aspettative, tanto che un terzo di loro rischia di rimanere senza occupazione. L’Università di Pechino ha calcolato che nel primo trimestre dell’anno le offerte di lavoro sono calate del 27% su base annua. Intrattenimento, servizi, sport, educazione, comunicazione digitale e finanza sono i settori con la più sensibile riduzione delle richieste di personale, anche nel campo della formazione professionale, dove le imprese tendono ora a licenziare anche gli studenti che fanno apprendistato. Il ministero dell’Educazione ha lanciato un piano di aiuto ai nuovi laureati che prevede l’aumento del numero degli assunti da parte delle imprese di Stato e dei nuovi reclutamenti nelle Forze armate. Ma basterà? A differenza dei loro coetanei che vivono nelle aree rurali, gli universitari cinesi sono nati e cresciuti in un contesto dove il miglioramento economico è la norma, creando per questo alte aspettative per il loro futuro lavorativo. I loro sogni frustrati rappresentano oggi una delle più serie minacce alla stabilità sociale e alla legittimità del Partito comunista.

Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.

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