Il coraggio di essere giovani

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Foto: Matthias Canapini ®

Le strade sono vuote. Dopotutto è quasi ora di pranzo. Però qui, pensandoci bene, di gente per strada non se ne vede tanta comunque. Il pulmino metallizzato si è lasciato alle spalle tante cose in poco tempo: le botteghe affollate della capitale, i ristoranti di Baščaršija invasi dai turisti, il ragazzo alcolizzato svedese capitato lì per caso, intento a tracannare la sua dose di whiskey mattutina. Pioveva e Sarajevo mi è apparsa ancora più bella, con la sua carica di struggente fascino. Ogni volta che raggiungo Srebrenica mi chiedo come sia possibile che in un posto così verde e pacifico sia accaduto qualcosa di così irrimediabilmente spaventoso. Una cieca mattanza che dal 1995, come neri artigli, getta collera e dolore su una cittadina di poche case private d’identità. Un dramma inascoltato ieri, incomprensibile oggi. Le lapidi abbaglianti del memoriale di Potočari e le mura deturpate delle case ricordano simbolicamente ciò che è stato. Gli uccellini, attorno, cantano dolcemente. 

Il babbo e la sorella maggiore di Ervin guardavano sempre l’NBA e in onore del gran giocatore Ervin “Magic” Johnson hanno voluto chiamare il secondogenito proprio come il fenomeno della pallacanestro. Difficile convincere i nonni a dare un nome gaelico irlandese anziché musulmano al nuovo arrivato. La vita scorreva normalmente, senza troppe pretese, ma nel 1992, sull’onda bellica che investiva i Balcani, gli spari si sono fatti sempre più vicini, pressanti. Ervin si nascondeva sotto al letto assieme al fratello mentre le voci correvano e la paura dilagava nell’aria. Le famigerate truppe del comandante Arkan avanzavano per campi e colline, distruggendo e razziando casa dopo casa. L’inizio della fine. Oggi, seduto in un bar vuoto della piazza principale di Srebrenica, Ervin, ragazzotto dai capelli scuri e lo sguardo furbo, mi racconta che durante la guerra era dura per tutti, anche per i più piccoli. Si passava più tempo nel rifugio che all'aria aperta, per paura di essere colpiti da qualche bomba sparata dalle colline di fronte. Il gioco preferito, in quel periodo strano, era raccogliere i pezzi delle granate esplose. Una volta ne hanno raccolta una intera, inesplosa. Se fosse stata realmente un giocattolo, forse sarebbe valsa mille punti, chissà. Quasi con orgoglio, Ervin e compagni, ingenuamente l’hanno mostrata ai parenti ed è stato compito del nonno portarla poi lontano, rimuoverla come un gingillo ormai difettoso. Ognuna di queste mine aveva un colore diverso: verde, giallognolo, rossiccio forse. I giochi in tempi di guerra. Più il conflitto si inaspriva, più si soffriva il freddo e la fame. In casa dei nonni si mangiava sempre Pita con patate, non c'era altro. Il problema era che, quando cucinavi, dal camino in pietra usciva un denso fumo grigio e il più delle volte era molto facile essere avvistati e bombardati pesantemente. Cosi la Pita si mangiava comunque, anche se non era ben cotta e il molliccio della crosta dava un poco fastidio ai bambini. Il tempo passava ed un giorno, sebbene controvoglia, Ervin ha raccolto i suoi giocattoli, li ha depositati nel fondo di un saccone e si è messo in marcia insieme alla sua famiglia. Tutti, tranne il babbo, il quale è rimasto volutamente a Srebrenica. “Ricordo tutto con esattezza. Una volta provata, è più facile ricordare una guerra che gli avvenimenti venuti poi. Era un vero casino. Abbiamo superato il confine clandestinamente, mia madre ha pagato i militari con i risparmi di famiglia. Mio fratello è nato con una gamba più corta dell’altra e all’epoca aveva un aggeggio metallico legato all’anca per curare questa disfunzione. I soldati gli hanno puntato i fucili addosso, perquisendolo minuziosamente, accusandolo di nascondere delle armi da qualche parte. Eravamo solo bambini in fuga. Lo sapevano bene. Oltrepassato il confine, come se non bastasse, il pulmino su cui viaggiavamo è stato crivellato dai proiettili mentre eravamo ancora a bordo. Una copertura dei militari croati per evitare futuri rimproveri da parte di non so chi, per dimostrare eventualmente ai superiori che avevamo forzato il confine, o per legittimare il gesto in sé”. Il viaggio di Ervin e famiglia, da Tešanj è continuato a Podgorica, costa croata, dove si sono rifugiati a casa di Dalma e Branko, due vecchi comunisti, ultime reliquie di una Jugoslavia strozzata. Dopo due mesi sono riusciti ad entrare in un campo profughi vicino al confine bosniaco dove li aspettava un lungo periodo di attese e incertezze. Malgrado tutto, all’interno della struttura, alcune donne sono riuscite ad organizzare una piccola e modesta scuola per le centinaia di bambini presenti. Dopo aver ottenuto alcuni importanti documenti la famiglia Mujic è ripartita ed in seguito ad un parapiglia generale al porto di Spalato, grazie all’aiuto di alcuni no global italiani sono riusciti ad imbarcarsi, direzione Italia. 

Tra dubbi e timori l’odissea è continuata ad Ancona dove le associazioni del posto avevano allestito un centro d’accoglienza per profughi Jugoslavi, poi su, a Nord, fino ad un paesetto sperduto nelle Alpi. Era già il 1993. Tramite una vecchia radio rimanevano saltuariamente in contatto col padre. L’unico strumento concreto per aggrapparsi alla speranza. Ervin si arrotola l’ennesima sigaretta artigianale, farcita con tabacco marrone, accenna un sorriso: “Pensa che l’autista non parlava bosniaco e mentre eravamo diretti nella nostra nuova casa, ad ogni tornante ripeteva sempre la parola curva. Avremmo capito in seguito di cosa realmente si trattava, ma al momento, essendo curva la parola con cui in Bosnia e altrove si definiscono le puttane, be’, non rincuorava di certo mia madre, la quale si domandava dove eravamo dannatamente finiti?! Lassù, in quel borgo di poche case arroccate sulle Alpi, i locali ci hanno trattato benissimo, eravamo i primi stranieri ed i ragazzini del posto, sbirciando dalla finestra, ci osservavano come fossimo alieni. Ancora sorrido ripensando a quel momento”. Il tempo scorreva inesorabile. 1995. Dopo tre lunghi anni e una strenua resistenza da parte di civili e combattenti, Srebrenica è caduta. Il mondo, indifferente fino ad allora, ha scoperto le prime fosse comuni. Il fondo più nero della disperazione. Nessuno credeva che sarebbe mai potuto accadere una cosa simile. Erano tutti convinti che la guerra, in una realtà forte e collettiva come la Jugoslavia, sarebbe durata al massimo qualche mese, se proprio doveva accadere. Così non è stato. Soltanto nella famiglia originaria di Ervin sono sopravvissuti al massacro, il più grande in Europa dopo l’olocausto degli ebrei, solamente quattro maschi su quaranta. Il corpo dello zio è stato riesumato sei anni dopo in sette fosse comuni diverse. La testa ed un braccio non sono ancora stati ritrovati. Del babbo, tuttora nessuna notizia.  

Porta cigolante, stufa a legna e stanze che sanno di tabacco invase dalla penombra. L’abitazione odierna di Ervin è rimasta immutata dai tempi del conflitto. Una copia del Corano è appoggiata sopra il comodino, morbidi tappeti floreali stesi a terra. Le note di qualche brano tradizionale galleggiano nell’aria opaca della casa. Un gruppo di ragazzi, racchiusi all’interno di una cornice in legno, mi fissa dalla parete di fronte: la squadra di calcio dove giocava il babbo di Ervin. L’acqua bolle. “Sai, i Balcani sono una terra strana, ci accusano di essere come una polveriera pronta ad esplodere. In parte è vero, se ci vogliamo bene d’accordo, altrimenti scattano le botte”. Ervin ride, tenendo un mestolo di legno in mano gocciolante sugo al pomodoro. “Balkan significa terra del sangue e del miele sai? Tito diceva sempre che nessuna repubblica vale qualcosa senza fratellanza. C’è molta nostalgia della Jugoslavia, da parte di tutti i gruppi etnici. Un vecchio detto comunista riferito ai nazionalismi recita all’incirca cosi, “Ista govna, razlicito pakovanje. La stessa merda, diverse confezioni”. Il sole, bollente, dilaga nelle strade mentre Ervin prepara due tazzine di caffè alla classica maniera bosniaca. L’odore sgorga dalla cuccuma e si infila sotto ai baffi. Hajra, zia settantenne di Ervin nonché Presidentessa dell’associazione “Donne di Srebrenica”, è una donna dagli occhi velati, malinconici, ma non pronti alla resa. I capelli corvini sono raccolti da una fascia nera ricamata a mano e due ampie lenti d’occhiali le incorniciano il viso smunto. Sorride di rado. Alla domanda di come sia stato possibile sopravvivere alla mattanza, Hajra alza umilmente le spalle: “Posso solo dirti che è importante testimoniare, affinché la memoria resti. Non dimentichiamoci che prima di questa follia generale ci conoscevamo tutti, lavoravamo insieme, io personalmente avevo tanti amici serbi, croati. Eravamo uniti. Durante quei maledetti giorni in molti sapevano cosa stava accadendo, ma la maggior parte di loro non ha mosso un dito per aiutarci. Paradossalmente con il passare degli anni siamo in grado di accettare anche le perdite che ci parevano inammissibili. Tutto passa tranne il sentimento provocato dall’ingiustizia. Nulla è più come prima.” All’alba tutto appare spettrale, privo di vita. La nebbia mattutina scende dalle cime alberate delle montagne circostanti. Infilo un altro maglione di lana. È freddo. Solo cani randagi per strada. 

*Attualmente Ervin vive stabilmente a Srebrenica, impegnato nel dar vita ad un progetto fatto di terra, comunità, memoria, eco-sostenibilità; consiste nel ricostruire un villaggio completamente distrutto e inabitato nella municipalità di Srebrenica. Si tratta del villaggio di Kasapic, a 13 km dal centro città, alle pendici della montagna Kak, racchiuso tra il fiume Jadar e il torrente Kasapic.  

Al link per informazioni o per supportare l’iniziativa “Srebrenica-City of Hope” tramite una raccolta fondi.

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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