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Virus e umani, a ognuno il proprio mestiere. O no?
Codici di condotta
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Foto: Unsplash.com
Che la fragilità sia il segno distintivo di questi ultimi anni è evidente.
Lo vediamo nelle politiche che ci accompagnano, negli atti amministrativi che le esprimono, nella nostra salute fisica e mentale, nelle relazioni che abbiamo con le altre persone, nella precarietà delle forme del lavoro e nel valore stesso del lavoro, lo sperimentiamo nella delicatezza degli equilibri di cui siamo parte. La pandemia, con la tenacia che sta dimostrando nel metterci alla prova su tutti i fronti dell’esistenza, non fa che amplificare questa lettura di disagio e vulnerabilità. Siamo preda della rabbia, della paura e dello sconforto, ci barcameniamo tra difficoltà economiche e organizzative, tra nostalgie fugaci di shopping compulsivo o abbuffate al ristorante, soffochiamo nel panico e nella solitudine, confusi tra la fiducia in una sperata panacea vaccinale e notizie che, proprio sui vaccini, aprono dubbi a cascata. L’incertezza la fa da padrona anche in quegli ambiti a cui tutti saremmo tentati di guardare per trovare risposte certe, ovvero la legge e la scienza.
In questo contesto, la biodiversità ha un ruolo cruciale. Perché, come spesso accade, noi umani ci facciamo distrarre da troppe cose, ignorando campanelli – o tromboni – d’allarme che invece lasciamo inascoltati. A richiamare l’attenzione sulla minaccia che incombe su di noi questa volta è l’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes), massima autorità scientifica in termini di natura e, appunto, biodiversità. Lo fa in un rapporto che mette in luce un dato che, a dirlo in questi giorni, per noi suona inquietante: esistono oltre 800 mila virus potenzialmente capaci di infettare il genere umano. Una notizia che aumenta esponenzialmente i brividi lungo la schiena anche se, diciamolo, non è certo un mistero. Lo ripetono in troppi e da troppo tempo che queste opportunità che i virus stanno trovando siamo noi stessi a procurarle. Sono infatti le attività umane a provocare cambiamento climatico e perdita di biodiversità che preparano il terreno alla diffusione delle pandemie. I cambiamenti rapidi che induciamo nell’uso della terra e del suolo; l’ostinazione nell’intensificazione delle monoculture e nello sfruttamento degli animali, anche selvatici; l’insostenibile stile di vita che difendiamo e che aumenta il contatto tra agenti patogeni e persone… sono solo alcune delle cause citate nel rapporto, che tra gli autori principali vede la firma di Peter Daszak, presidente di EcoHealth Alliance.
Quella che lega l’uomo al resto degli animali è una relazione complessa e non priva di rischi, soprattutto quando si parla di animali selvatici a contatto con l’uomo, come quelli macellati sul posto nei mercati orientali probabile causa dello spillover di cui ormai abbiamo tutti sentito parlare, ma anche in senso contrario, quando si parla del contatto tra l’uomo e gli animali, come probabilmente è accaduto negli allevamenti di visoni in Danimarca. Il fatto è che, calcolando anche le malattie infettive emergenti, circa il 75% delle malattie infettive negli esseri umani sono zoonotiche, ovvero legate al contatto con gli animali. E gli allevamenti intensivi amplificano queste problematiche, in quanto luoghi in cui gli “ospiti” sono selezionati per somiglianza e trattenuti in spazi angusti, per massimizzare il risultato nella coerenza degli obiettivi di produzione. Qui gli animali non vengono affatto selezionati per la loro capacità di resistere alle infezioni, aspetto che invece abbassa notevolmente i rischi proprio per la prossimità di individui con una pronunciata diversità genetica. È evidente come l’innaturalità di spazi ristretti e di condizioni igienico sanitarie insostenibili (spesso gli animali contraggono infezioni o si provocano ferite, senza contare l’abuso di antibiotici) sia soltanto una delle prospettive da cui affrontare un fenomeno di cui non vogliamo prenderci alcuna responsabilità, pur essendo ormai chiaro che i costi della prevenzione delle pandemie sono percentualmente molto inferiori a quelli della risposta emergenziale che, una volta esplose, richiedono.
I virus sono migliaia e mutano in continuazione, e la nostra risposta qual è? Ammattire nella produzione e nella ricerca (che in Italia è anche alquanto squattrinata) di vaccini, puntando sull’illusoria convinzione che con una puntura risolveremo i nostri problemi, senza ampliare lo sguardo su una situazione molto più complessa e pericolosa, che ci riguarda da vicino molto più dell’agognato appuntamento per la magica soluzione da iniettare sulle nostre preoccupazioni. Certo, difendere la natura come scrigno di biodiversità, aumentando le aree protette e contenendo lo sfruttamento di zone ed esseri viventi a rischio, nonché ridurre drasticamente la vergogna della catena di sfruttamento degli animali è ben più impegnativo di aspettare preoccupati in divano il proprio turno per un vaccino. Ma siamo indebitati con il mondo, e prima ancora con noi stessi. Non possiamo negarlo. E se le varianti COVID 19 stanno solo facendo il proprio mestiere, ovvero contagiare il maggior numero di ospiti possibili per riprodursi e vivere, noi il nostro mestiere non lo stiamo affatto facendo. Che in fondo sarebbe, solo, avere cura di noi e della terra, per garantirci un futuro.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.