Unica via d’uscita? La solidarietà!

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Foto: Unsplash.com

Lo scorso dicembre AsiaNews ha lanciato la campagna “Pakistan - mattoni” per provare ad aiutare 52 famiglie segnate dalla disoccupazione e dalla povertà: “tutti i loro membri lavorano nelle fabbriche di mattoni, con miseri salari e in una condizione da schiavi. La loro situazione è peggiorata perché a causa della pandemia e del conseguente lockdown, le fabbriche hanno chiuso lasciando tutte queste famiglie – ma nel Paese sono milioni i disoccupati in questo settore – senza salario, cibo e vestiti per l’inverno”. Unica via d’uscita? Farsi prestare soldi dai padroni, ipotecando ancora di più il proprio futuro e quello dei loro familiari. “Con 15 euro si può dare la possibilità a una famiglia di vivere per 15 giorni” aveva spiegato l’agenzia di informazioni del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME) che da quasi 20’anni, quotidianamente, è un importante osservatorio sociale e politico (oltre che religioso) su tutto quello che accade nel continente asiatico. L’idea di pagare il debito di alcuni lavoratori di una fabbrica di mattoni di Kamalpur era nata da alcuni lettori di AsiaNews, dopo aver appreso della loro situazione, ed ha avuto successo. Grazie alla raccolta fondi, lanciata prima di Natale, tutte le 52 famiglie in marzo hanno potuto estinguere il loro debito con il proprietario della fabbrica in cui erano obbligati a lavorare. 

In principio la campagna di AsiaNews era stata lanciata con l’idea di donare cibo e vestiti pesanti per l’inverno ad alcune famiglie che lavorano in alcune fabbriche di mattoni di Kamalpur. Dopo le prime donazioni in dicembre e gennaio, alcuni lettori si sono resi disponibili a coprire tutto il debito che le 52 famiglie hanno contratto con i loro datori di lavoro (o meglio "padroni") e così è stato. “Nostra figlia è nata che eravamo schiavi. Ora però può aprire gli occhi in un mondo libero per noi” ha spiegato Munawar Masih, di 28 anni, padre di tre bambini, operaio in una fabbrica di mattoni. In particolare la famiglia di Munawar era già indebitata prima dell’arrivo del Covid. “La mia famiglia, che aveva in mente un matrimonio combinato per me, mi ha permesso di sposare Asima e non l’altra donna solo a patto di restituire quanto speso per il matrimonio” ha spiegato. Per ripagare i propri genitori ha chiesto un prestito di 70mila rupie (circa 376 euro) al titolare della fabbrica di mattoni dove lavorava, cifra cresciuta con la disoccupazione provocata dalla pandemia e con la necessità di accudire la loro ultima figlia. “Da quel momento siamo diventati degli schiavi che attendevano di essere liberati”.  Per aiutare il marito, infatti, anche la moglie Asima Bibi, di 26 anni, ha dovuto lavorare alla fabbrica anche quando era incinta: “Era doloroso, ma non potevo fare altrimenti fino a quando ci hanno donato i  soldi per liberarci”.

Masih, lavora in fabbrica da 5 anni: “dei miei tre figli nessuno va a scuola. Il prestito che ho preso dal mio padrone era di 50mila rupie [circa 270 euro] mi è servito per pagare in parte il debito contratto con la mia famiglia e mi serviva per comprare qualcosa per la casa e il cibo in questo periodo di Covid. Viviamo un una piccola casa che è di una sola stanza, senza bagno. Ce l’ha data il padrone della fabbrica di mattoni. Lui ci costringe a lavorare quando ci sentiamo bene, ma anche quando non siamo in salute: siamo costretti a lavorare perché siamo indebitati con lui”. Adesso Asima e Masih e le altre famiglie hanno potuto estinguere il loro debito. "potremo affittare una casetta con bagno, così mia moglie e i figli non incontreranno l’ira dei padroni dei campi, dove loro sono costretti a fare i loro bisogni. Ora la gente, guardandoci, potrà dire che eravamo degli schiavi nelle fabbriche di mattoni, ma ora sono siamo tornati alla vita in libertà. Nel prossimo futuro io vedo tanta serenità: i miei figli potranno andare a scuola, nessuno potrà costringerli a lavorare fra i mattoni. Nessuno ci insulterà più: dopo aver pagato il debito, saremo uguali in dignità e rispetto con il nostro padrone. Davvero, in tutta umiltà, dico grazie al popolo di Dio che ha ascoltato la nostra voce e ci ha liberati”. Per la moglie Asima la cancellazione del debito avrà effetti positivi per anni: “È qualcosa che produrrà frutti per generazioni. Io sono qui a lavorare fra i mattoni da 5 anni, ma conosco molte famiglie che vi lavorano da generazioni proprio perché non possono ripagare il loro debito. Per chi è povero non c’è dignità e rispetto, e se un povero ha un debito, questo lo rende ancora più vulnerabile. Ho lavorato nella fabbrica di mattoni anche durante la mia gravidanza, perché eravamo costretti a lavorare: crescere tre figli e lavorare ai mattoni non è un compito facile. Siccome siamo poveri, non possiamo mandare a scuola nemmeno uno dei nostri figli: a malapena riusciamo a procurarci il necessario, come potremmo pagare le spese della scuola?”.

La condizione di questa famiglia è emblematica. “Qui alla fabbrica ogni famiglia ha una storia difficile e la situazione delle donne è perfino peggio” ha spiegato Asima. “Ci sentivamo morire ogni giorno vedendo i nostri figli sempre più poveri e il loro futuro condizionato dal nostro lavorare nella fabbrica di mattoni. Nessun padre o madre vorrebbe vedere i propri figli diventare schiavi come posiamo stati noi. Abbiamo fatto del nostro meglio per ripagare il debito, ma la stagione della pioggia, l’inverno e la pandemia ha costretto la fabbrica a chiudere”. Il resto è cronaca e rappresenta la quotidiana difficoltà di centinaia di famiglie pakistane. Qui, a quanto pare, se una famiglia prende prestiti dal padrone della fabbrica di mattoni, quella famiglia può ripagare il debito solo se succede un miracolo o se incontra la solidarietà e la generosità di altre famiglie, in questo caso quelle dei lettori di AsiaNews. “Sì, i miracoli esistono! Oggi io sono testimone di un miracolo! Grazie a tutti coloro che ci hanno aiutato a recuperare la libertà!” ha concluso Asima Bibi che, come le altre 51 famiglie, ha ricevuto oltre all'impagabile “riscatto” della propria libertà, anche dei pacchi alimentari.

Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.

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