Isis, verso la battaglia finale

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Il cosiddetto Stato Islamico è destinato a non durare a lungo. Questa affermazione è suffragata da dati presenti e da circostanze storiche risalenti pure a tempi antichi. In quella regione, attraverso i secoli, si sono ripetuti più volte scenari del genere: nascita e rafforzamento di gruppi armati “ribelli” al precario ordine costituito; presa del potere in un determinato territorio; utilizzo sistematico di ideologie violente e di metodi sanguinari per mantenere il proprio dominio e per spaventare i nemici; esibizione di forza, minacce verso l’esterno; nascita di coalizioni dei Paesi limitrofi per annientare questa nuova entità; fine del tentativo rivoltoso dovuto alla pressione esterna e a uno sfaldamento interno.

Oggi sembra ripetersi lo stesso scenario. Il califfato è ancora forte perché gode di appoggi e di connivenze – quasi sempre non dichiarate apertamente – e perché molti degli attori che lo dovrebbero contrastare non hanno una strategia condivisa e univoca. Tutti si muovono in ordine sparso secondo una propria agenda. La Turchia è preoccupata dall’instabilità ai propri confini ma teme ancora di più il rafforzamento dei curdi che a loro volta da decenni sognano la nascita di un proprio Stato. L’Iran e i suoi alleati nella regione (la parte sciita dell’Iraq e i guerriglieri di Hezbollah) combattono il califfato, ma nello stesso tempo sono contenti che esso metta filo da torcere agli altri sunniti. Ragionamento uguale ed opposto da parte dell’Arabia saudita: il regno è spaventato dagli incontrollabili metodi terroristici dell’Isis, ma ugualmente lo vede come contraltare alla crescente influenza sciita. L’Egitto vorrebbe essere il leader della regione ma il Generale Al Sissi, al di là della propaganda e delle bandierine, dell’amicizia con Putin, deve guardarsi bene internamente: la contro rivoluzione dell’esercito trova grande opposizione nei Fratelli musulmani e non solo. Sembra che solo la repressione sia capace di mantenere Al Sissi al potere.

A ciò si aggiunge la debolezza degli Stati Uniti, impantanati da varie crisi e privi di strategia. Basti ricordare il caso della Siria: la “linea rossa” tracciata da Obama contro Al Assad è stata varcata più volte in questi mesi, ma nel frattempo il regime alaouita non è più un nemico, anzi si presenta come un argine all’avanzata dell’Isis, ritenuta decisamente più pericolosa.

In questo quadro Al Baghdadi continuava a rafforzarsi. Armi, anche molto moderne, non mancano; proventi dal petrolio anche; combattenti pronti a morire pure. Si parla poi di armi chimiche in possesso dell'Isis. Se questa notizia fosse confermata si aprirebbero scenari inquietanti: il loro utilizzo da parte dei terroristi sarebbe scontato. Con esiti catastrofici. Ora però siamo arrivati a un punto di svolta. La barbara esecuzione del pilota giordano dimostra inequivocabilmente la natura terroristica dell’Isis. Infatti uno Stato sovrano – come vorrebbe presentarsi il califfato – non si comporta in quel modo con un prigioniero di guerra a tutti gli effetti. L’entità di Al Baghdadi è frutto di predoni terroristi e non può essere di certo il faro per il mondo arabo.

Quello che è troppo, è troppo. La reazione furibonda del Regno giordano è solo l’inizio. Entro l’estate si prevede l’offensiva di terra contro l’Isis. Essa, a guida americana, non prevederà sul campo soldati statunitensi bensì giordani e iracheni.

Anche perché non è detto che la “coalizione” sia così unita. Anzi negli ultimi giorni molti distinguo si sono sollevati tra gli Stati arabi. Quindi bisogna fare presto. Obama ha chiesto il via libera, scontatissimo, al congresso a guida repubblicana. L’Iraq non è certo un terreno favorevole per gli americani, ma questa volta l’operazione verrà condotta fino alla distruzione dell’Isis. Operazione non facile – si parla di ventimila combattenti al servizio del califfato più altri gruppi che potrebbero unirsi nella lotta come Al Nosra  – che però va compiuta in tempi rapidi, pena il prolungamento della guerra del deserto che Obama aveva cercato invano di chiudere. Ricordiamo però che l’area non è disabitata, ci sono grandi città: si prevede nuova devastazione. Guerra dunque.

L’Isis ha i giorni contati. Questa affermazione rimbalza nelle dichiarazioni di giornalisti, politici, generali. Ma dopo? Forse non resterà più come embrione di Stato ma come un nucleo destabilizzante capace di mettere a soqquadro l’area e di compiere azioni eclatanti in  Europa. Ci vorranno poi anni per “risolvere” almeno in parte la questione siriana. Tutti hanno capito che Al Assad resisterà al potere per lungo tempo. E allora bisognerà arrivare (se non è ancora stato fatto segretamente) a patti con lui. E se si vuole fare patti con Al Assad è necessario tenere conto di Hezbollah. Il movimento sciita del Libano – fornitissimo di missili anche a lungo raggio – non è più nell’angolo come sembrava fosse all’inizio della guerra civile siriana; quindi ha voce in capitolo. Ma la sua agenda è rivolta verso sud, cioè verso Israele.

Insomma, come sempre, il quadro è complicato. Sicuramente in questa partita si rafforzerà ancora l’Iran. Verrà il tempo che l’Occidente prenda sul serio come interlocutore possibile l’Iran? Intanto il cosiddetto mondo arabo, dopo il quasi totale fallimento delle “primavere”, continuerà ad essere senza pace.

Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.

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