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Ahmed e Shaima: due eroi “normali” della libertà di espressione
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Due storie diverse quelle di Ahmed Merabe e di Shaima Al-Sabbagh. Il primo, poliziotto di quartiere di Parigi, francese di origine algerina; la seconda, un’attivista di un gruppo politico socialista in Egitto. 42 anni lui, 32 lei. Entrambi morti sotto lo sguardo del mondo intero a distanza di poche settimane.
Ahmed è stato giustiziato il 7 gennaio da uno dei fratelli Kouachi mentre, già ferito, era inerme a terra fuori dalla sede del settimanale Charlie Hedbo dove si è appena consumata la mattanza. Trasmesse come un sequel alla “Law and Order”, le immagini e le ultime parole del poliziotto che invoca pietà sormontato dai due terroristi che gli si avvicinano armati di kalashnikov hanno nutrito la morbosa curiosità di un pubblico incollato a tv e social network, all’asciutto di ulteriori notizie per decifrare ciò che stava accadendo nella capitale francese.
Shaima è stata invece colpita da alcuni proiettili in strada mentre partecipava al Cairo alla “marcia dei fiori”, una manifestazione simbolica per rendere omaggio con la deposizione di fiori alle persone uccise durante la rivoluzione egiziana. La limitata enfasi mediatica ricevuta dal quarto anniversario della rivoluzione, avviata da quel 25 gennaio 2011 che infiammò Piazza Tahir e portò alla capitolazione del presidente Mubarak, è stata completamente rimpiazzata dalla commozione mondiale che ha creato il caso di Shaima. Toccante è la sequenza di immagini che raccontano gli ultimi istanti di vita dell’attivista egiziana ferita gravemente alla testa, sollevata da terra e posta in piedi da un uomo inginocchiato davanti a lei, e poi ancora la disperata quanto vana corsa della donna inerte in braccio al marito alla ricerca di immediati soccorsi.
Ahmed e Shaima sono due individui “normali”, assurti a eroi della libertà di stampa e di espressione in questo gennaio di sangue.
Al virale #JesuisAhmed lanciato su Twitter da Dyab Abou Jahjah, un attivista e scrittore di origine libanese, che ha messo in bocca al poliziotto ucciso “Charlie Hebdo metteva in ridicolo la mia fede e la mia cultura e io sono morto per difendere il suo diritto di farlo”, si è sommato il messaggio espresso dal presidente francese François Hollande nella cerimonia commemorativa svoltasi alla Prefettura di Parigi per i poliziotti morti negli attentati di Parigi “Clarissa, Franck, Ahmed, sono morti perché noi potessimo continuare a vivere liberi.”
Il sacrificio più estremo, quello della propria vita, ha unito loro malgrado Ahmed e Shaima, ma il parallelismo qui finisce. Nel caso egiziano si avverte l’assordante silenzio di un accertamento dei colpevoli dell’omicidio, coperto piuttosto dall’immediato declino di qualsiasi responsabilità da parte della polizia che invece, secondo le testimonianze, stava tentando di disperdere i manifestanti sparando proiettili “di gomma”, anche a distanza ravvicinata. Proprio quei colpi avrebbero tolto la vita alla donna. Sull’uccisione di Shaima è intervenuto il Partito Socialdemocratico Egiziano (PESD) che ha condannato “la brutalità delle forze di sicurezza e l’oppressione contro chi chiede libertà e giustizia sociale”. Il Pesd ha avvertito che “l’insistenza dello Stato nel ridurre la libertà di espressione, il diritto di protesta pacifica, incitando l’opinione pubblica contro i giovani, e negando la crescente rabbia di chi era stato in prima linea nelle rivoluzioni di gennaio e giugno potrà condurre solamente a delle gravi conseguenze”. La richiesta di indagini per individuare i responsabili dell’assassinio è rimbalzata anche al di fuori dell’Egitto, dove sono state centinaia le persone scese in molte piazze europee, specie a Parigi e a Istanbul, per ricordare la tragica morte di Shaima, riproducendo la scena che vede lei in piedi, agonizzante, stretta nell’abbraccio di un uomo inginocchiato che la sorregge.
A dispetto della doppia "rivoluzione popolare" attraversata dall’Egitto, da Hosni Mubarak a Mohamed Morsi e da Morsi ad Abdel Fatha Al-Sisi, quelle immagini ricordano al mondo intero che in Egitto è da tempo venuto meno il diritto di organizzare un corteo pacifico. Una controversa legge del novembre 2013 ha messo infatti al bando i cortei, nel chiaro intento di evitare l’opposizione in piazza dei Fratelli Musulmani, ma di fatto dando ampi poteri discrezionali alle forze di sicurezza per limitare la libertà di opinione, di espressione, di manifestazione e di stampa (anche sul web) di tutti gli egiziani. Si stima che dalla presa del potere dell’esercito guidata da Al Sisi, l’attuale presidente egiziano, siano state uccise circa 1.400 persone, a vario titolo “dissidenti”. All’assenza di diritti civili e politici e all’instabilità politica del Paese si unisce la profonda crisi economica in cui versa lo Stato, frutto peraltro dell’incapacità del governo militare di garantire il ritorno degli investitori e di far ripartire il settore chiave del turismo. La disoccupazione è pari al 13,4% ma sale al 29% per i giovani sotto i 30 anni che nel Paese rappresentano il 60% della popolazione. Un egiziano su quattro vive al di sotto della soglia di povertà, un elemento che induce a chiedere con sempre maggior disperazione “pane, libertà e giustizia sociale”.
Nuovo allarmismo stanno invece creando le notizie dei recenti attentati terroristici verificatisi nel nord della Penisola del Sinai lo scorso 29 gennaio che hanno lasciato sul terreno 32 morti tra militari e civili, colpendo una base militare, un hotel, un club della polizia, alcuni posti di blocco e la sede (ormai distrutta) del giornale statale Al-Ahram. La clamorosa azione è stata rivendicata dagli “Ansar Bait al-Maqdis”, i Partigiani di Gerusalemme, principale gruppo jihadista egiziano con base nella penisola, da poco ribattezzata “Stato del Sinai” all’interno di una sorta di confluenza con l’Isis annunciata lo scorso novembre. Gli attentati mettono in evidenza l’inefficacia delle politiche anti-terrorismo adottate finora dall’Egitto, come dichiarare lo stato di emergenza, porre il coprifuoco, limitare il traffico in entrata e uscita nel Sinai e demolire centinaia di case nella città di Rafah. Anzi, proprio l’introduzione di politiche molto repressive nei confronti dei movimenti e gruppi islamisti, tra cui anche i Fratelli Musulmani, in corrispondenza della sostituzione di Al Sisi a Morsi, avrebbe intensificato le violenze nella Regione. Violenza, rafforzamento del sistema di sicurezza e repressione, seppur non sempre in questo ordine. Ieri l’esplosione di una bomba a Qasr al-nil Street, nel centro del Cairo, e l’individuazione di altri due ordigni nei terminal dell’aeroporto della capitale egiziana hanno ulteriormente contribuito ad aggravare questa spirale di odio. La situazione è senz’altro destinata a peggiorare.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.