Per noi che veniamo dall’Europa è difficile capire

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Immagine: Comune-info.net

529 Anni dal viaggio di Cristoforo Colombo e dall’inizio della Colonizzazione delle Americhe in quel 12 ottobre e ad altrettanti anni di Resistenza Indigena suggellati dal 25° anniversario della nascita del CNI Congreso Nacional Indígena  una delegazione indigena del Chiapas  è salpata da Isla Mujeres nella penisola dello Yucatán alla volta dell’Europa il 10 aprile scorso. Dal 12 ottobre fino all'8 novembre è in Italia e ha  in programma una serie di incontri  per testimoniare l'aggressione culturale, sociale ed economica in corso da parte stato messicano. Celebriamo e ricordiamo questa #GiraZapatista nella nostra Penisola + Isole con un racconto del nostro direttore Raffaele Crocco.

Per noi che veniamo dall’Europa è difficile capire. E’ difficile immaginare quello che davvero significa il 12 ottobre per i nativi del Continente americano.

Ogni anno quel giorno torna, implacabile, a ricordare loro che sono figli di qualcun altro, di un altro popolo. Torna per non far dimenticare che sono diventati qualcosa di diverso da ciò che erano una volta. È un ricordo condiviso da milioni di persone, da molta parte di un continente. 

Di qui dall’Oceano, in Europa, parliamo ancora oggi di Nuovo Continente  e ne parliamo come di una conquista: la conquista delle Americhe. Qualcuno più politicamente corretto o  magari sensibile, accenna alla semplice scoperta, tralasciando la coda lunga cinque secoli del colonialismo, delle stragi, della distruzione di una cultura. Loro, i conquistati, del 12 ottobre parlano  come della catastrofe, come di una invasione, di una occupazione tirannica e sanguinaria. 

Sfilano per le strade e ricordano un evento luttuoso: la morte della loro dignità. 

In Chiapas, arrivano da tutte le parti. San Cristobal de Las Casas, in quel 1996 era invasa da maya e indigeni. Da giorni, lunghe file di camion carichi di gente delle comunità delle montagne e della selva arrancavano sino alla città. Si arrampicavano su per la strada che porta ai duemilacinquecento metri del centro. Una volta arrivati si piazzavano ovunque. Dormivano nei cortili delle chiese, nelle case comunitarie, al mercato, sfidando freddo e pioggia. Attendevano così il 12 ottobre per sfilare lungo le strade, nel zocalo, sfidando i discendenti dei colonizzatori, i coletos ( la parola che indica gli abitanti ricchi di origine spagnola di San Cristobal de Las Casas. Deriva dall’abitudine di portare i capelli lunghi raccolti a codino), i ricchi di San Cristobal. Si sentivano forti della nuova coscienza portata dalla rivoluzione zapatista. 

In realtà, possono accadere così strane cose nei giorni prima del 12 ottobre, soprattutto se si è bianchi di pelle, gringos.

Io lo scoprii un sabato. Assieme a Mauro, un fotografo milanese con cui lavoravo, cercavo di raggiungere una comunità nella montagna. La giornata era tutt’altro che invitante. Pioveva, come quasi sempre in ottobre e il Maggiolino verde coraggio che avevamo preso a nolo, il “bochito”, come lo chiamano laggiù, sbandava da tutte le parti. È una gran macchina il bochito, identico al fratello europeo che la Volkswagen non produceva più da anni. Ha un motore 1.600 di cilindrata che ti porta dove vuoi. Spesso ci siamo ritrovati ad affrontare strade impossibili, tutte buche e fango come quella che porta a La Realidad, la quasi capitale zapatista. I grossi fuoristrada si fermavano sul ciglio della pista sfiancati. Il bochito proseguiva imperterrito: prima marcia, seconda, ancora prima. Non ci ha mai abbandonati. Era quasi un mese che avevamo quella macchina tutti i giorni e ormai eravamo affezionati. Il gestore dell’autonoleggio, pagato in anticipo settimana per settimana, ci adorava.

Verso mezzogiorno, quel sabato, smise di piovere e tra le colline, lungo una strada di asfalto grigio scuro, ci trovammo sotto il sole. Era piacevole. Eravamo a sessanta chilometri da Tuxla, la capitale dello stato del Chiapas. I camion li vedemmo spuntare da dietro una curva all’ultimo momento. Viaggiavano in senso inverso e mostravano bandiere rosse con la faccia di Zapata. I campesiños nei cassoni aperti sventolavano fazzoletti e sombreri.

<<Gira e seguili, presto! ⎯ mi disse Mauro ⎯ Voglio fotografarli!>>

Trovai uno spiazzo e feci inversione. I camion procedevano lentamente, li riprendemmo quasi subito. Mauro uscì con il busto dal finestrino, iniziando a scattare. Non ci volle molto per capire che avevamo commesso un errore. Il camion davanti a noi rallentò sempre di più e mentre un furgone ci affiancava, un altro camion ci avvicinò da dietro: eravamo in trappola. Ci fermammo. In pochi secondi ci ritrovammo circondati da un centinaio di persone. Pensammo di correre ai ripari chiudendo i finestrini: inutile. Cominciarono a prendere l’auto a calci, a battere i pugni sui vetri. Urlavano di volere la macchina fotografica, minacciavano, dicevano di scendere subito dall’auto. 

Mauro cercava di calmarli:

<<Volete le foto? ⎯ gridava ⎯ Ve le do! State tranquilli che ve le do!>>

Fece allora per estrarre il rullino, glielo strapparono via, rompendo contemporaneamente la tendina della Nikon. Attraverso il finestrino un ragazzino puntava una fionda, armata con una biglia, alla testa di Mauro. Dal mio lato quattro donne si erano attaccate allo specchietto retrovisore e tentavano di forzare la serratura per aprire la portiera. Fu allora che, fendendo la folla a fatica, arrivò un uomo magro, forse di cinquant’anni, con i baffi ed una camicia a scacchi rossi e blu. Attraverso il vetro, calmando le donne, mi chiese chi fossimo.

Scoprimmo più tardi che si chiamava Benito. Era uno dei capi di quella gente. Aprendo appena un po’ il finestrino gli passai la tessera stampa ed un accredito che avevo della Conai, l’organizzazione che stava mediando la pace tra governo e Esercito zapatista di liberazione nazionale.

<<Siamo giornalisti italiani e niente di più ⎯ gli dissi ⎯ Stavamo solo facendo delle foto alla colonna dei camion, perché possono interessare ai giornali del nostro Paese.>>

La gente si era un po’ allontanata. Ero riuscito ad aprire la portiera ed uscire dall’auto. Mauro invece era rimasto inchiodato al sedile. Dal suo lato ancora si stavano accalcando e continuavano a ruggire.

<<Perché ci avete aggredito? ⎯ continuai ⎯ Non siamo poliziotti e nemmeno soldati, potevate chiederci chi fossimo>>

<<E voi? ⎯ rispose Benito ⎯ Potevate chiederci il permesso di fotografare. Sono tempi difficili questi! La polizia scatta foto alle persone e poi le fa sparire, non lo sapete? I miei compagni hanno avuto paura>>.

<<Anche noi, accidenti>>.

Nel frattempo, vedendo che  Benito parlava con me, tutti si calmarono. Mauro ne approfittò per scendere. Era infuriato. In milanese iniziò ad imprecare:  

<<Paura un cazzo! Mi hanno rotto la macchina fotografica e quell’esaltato di ragazzino mi puntava addosso una fionda>>.

Tradussi a Benito, che si limitò a guardarci.

<<E così venite dall’Italia?>>, mi chiese.

<<Sì. Seguiamo i dialoghi di pace, come dimostra l’accredito e oggi avevamo deciso di raggiungere qualche comunità all’interno. Vedendo i camion, abbiamo pensato di scattare qualche foto.>>

<<Già. Ho visto. ⎯ rispose l’uomo ⎯ Noi stiamo andando a San Cristobal per la manifestazione di domani. Più avanti abbiamo appuntamento con altri. Volete ancora fare le vostre foto?>>

<<Certo>>, dissi.

<<Allora seguiteci. Al bivio della strada per Tuxla ci fermeremo ad aspettare altri convogli. Parlerò ai miei compagni e vedrete che potrete fotografare, ma adesso mettetevi in coda.>>

Mauro ed io risalimmo in auto. Avevamo bloccato il traffico per dieci minuti, si era formata una lunga fila d’auto, che nulla c’entravano con i dimostranti. Per di più vicino a noi, due auto più in là, c’era fermo un camion carico di militari armati. Ci guardavano sorridenti dal cassone. Avevano visto tutto senza intervenire: non sarebbero mai scesi se i campesiños avessero deciso di linciarci.

Il convoglio ripartì, con noi dietro. Non osammo estrarre le macchine fotografiche, ci limitammo a seguire i manifestanti bestemmiando per quello che era successo. Venti minuti dopo i camion si fermarono in un largo spiazzo, appena dopo l’incrocio che porta alla strada per San Cristobal. Un giovane ragazzo con i capelli lunghi ed una borsa di pelle a tracolla si avvicinò correndo.

<<È qui che abbiamo l’appuntamento. ⎯ ci spiegò ⎯ Adesso dobbiamo aspettare gli altri.>>

<<Quando arriveranno?>>, chiesi.

<<Presto. Tra mezz’ora, forse un’ora, vedremo>> e se ne andò.

Scendemmo dall’auto per cercare Benito e prendere accordi su come fare le fotografie.

<<Meglio andare su uno dei camion, ⎯ era convinto Mauro ⎯ così potrò fotografare meglio. Tu mi vieni dietro con l’auto. Credo che per oggi ne abbiamo viste abbastanza, perciò sarà meglio rientrare in città.>>

Ero d’accordo: la paura di prima si era trasformata in una stanchezza lieve e costante. È sempre così ogni volta che  passa la paura. Finita l’adrenalina arriva il resto, cioè il desiderio di un posto tranquillo, magari di una doccia ed un letto. Trovammo Benito. Parlava col ragazzo che ci aveva informati dell’appuntamento e altre due persone.

<<Sto dicendo a tutti che siete giornalisti italiani e che dovete scattare molte foto. ⎯ disse interrompendo la discussione coi tre ⎯ Non dovete prendervela per quello che è successo prima, nessuno di noi sapeva. Adesso è tutto sistemato: vedrete che potrete lavorare tranquilli.>>

Mentre Mauro si allontanava tornando all’auto, Benito mi spiegò su quale camion poteva salire quando saremmo ripartiti. Aggiunse anche che gli altri manifestanti che aspettavamo arrivavano dalle comunità attorno a Tuxla.

<<Ogni anno organizziamo questi convogli ⎯ diceva ⎯ per partecipare alla marcia del 12 ottobre. È un appuntamento a cui non vogliamo mancare, perché vogliamo ricordarla bene quella data e farla ricordare a chi ci ha invaso. Avresti dovuto vedere cos’è stata la marcia del 1992, quando c’era la scadenza dei cinquecento anni dall’invasione. San Cristobal era piena di gente e pochi allora immaginavano che tra i manifestanti si celavano già gli zapatisti. Già, l’Ezln: è questa la nostra arma di riscatto, l’unica possibile>>.

Parlavamo e camminavamo lungo la fila dei camion parcheggiati. Non ve ne era uno simile all’altro. Alcuni erano antichi cassoni nordamericani, altri più moderni Mercedes. Molta gente continuava a rimanere ferma nel cassone, mangiando frutta o bevendo acqua. Altri, per lo più uomini più giovani, erano scesi a sgranchirsi le gambe. Benito si fermò a chiacchierare. Trovai Mauro circondato da una decina di persone.

<<Non è Marijuana, ⎯ diceva ⎯ ma quale marijuana! Questo è tabacco, mi faccio le sigarette così. Sono buone, vuoi assaggiarle?>>

<<Cosa succede?>>, gli gridai da una decina di metri.

<<Niente, niente. Hanno visto che mi rollavo una sigaretta e sono venuti a vedere cosa stessi facendo. Pensano che sia Marijuana. ⎯ e rivolto agli altri ⎯ È tabacco, solo e semplice tabacco!>>

Il campesiño che aveva di fronte disse di sì, che voleva provare la sigaretta. Allora Mauro gli diede quella che aveva appena preparato: fu una specie di condanna al lavoro perpetuo. Nella mezz’ora che seguì si ritrovò a rollare tabacco per una trentina di persone, senza trovare il tempo di fumarsene una. Arrotolava cartine e distribuiva sigarette senza sosta. La gente arrivava chiedendogliene una e lui, piantato sulle gambe all’ombra di un camion giallo, non osava dire basta. La parola fine si scrisse da sola quando finì il tabacco e se ne andarono tutti. Allora rivolgendosi a me disse:

<<Senti, non è che per caso puoi offrirmi una sigaretta?>>

Un uomo magro, probabilmente anziano, si avvicinò. Sedette sul ciglio della strada dov’ero a fumare. Davanti si apriva una vallata verde, sullo sfondo le colline si inseguivano fin dove era possibile vedere.

<<Venite dall’Italia?>> chiese.

<<Sì, dal nord>>

<<Ed è più lontana di Città del Messico?>>

<<Molto più lontana. Bisogna attraversare l’oceano, verso est. Con l’aereo ci s’impiega quindici ore altrimenti c’è la nave, ma il viaggio è più lungo.>>

<<Io non sono mai stato neanche a Città del Messico. È troppo lontana, costa troppo. Mi piacerebbe andarci però. Mi piacerebbe anche vedere l’Italia. Somiglia al Nord America?>>

<<No, è diversa. O almeno noi pensiamo sia differente. È ricca però, più ricca del Messico.>>

<<Cosa significa più ricca?>>

<<Vuol dire che guadagniamo più denaro, molto più denaro. È anche vero che vivere nel mio Paese costa di più, ma comunque la gente normalmente sta meglio che qui da voi. Sono pochi quelli che hanno fame, che non hanno abbastanza soldi per mangiare.>>

<<Allora devo proprio venirci. Qui la fame ce la portiamo addosso come i vestiti!>>, concluse e se ne andò.

Nel frattempo Benito era diventato impaziente. Gli altri manifestanti non arrivavano ed eravamo fermi ormai da più di un’ora.

<<Forse è successo qualcosa>>, diceva camminando su e giù per la strada.

<<No, viaggiano solo lentamente.  ⎯ gli risposi ⎯ Non credo siano stati fermati dai federales. È che i camion vanno lenti>>

<<Sarà, ma spero arrivino presto. Dobbiamo arrivare a San Cristobal prima che faccia buio per sistemarci per la notte!>>

Il sole se n’era andato. L’aria era fresca, sin troppo e si temeva iniziasse a piovere. Gli altri camion, quelli da Tuxla, arrivarono mentre Mauro controllava per l’ennesima volta che le macchine fotografiche fossero a posto. Si fermarono un solo attimo col motore acceso, giusto il tempo perché tutti risalissero a bordo e si formasse nuovamente la colonna. Mauro prese posizione su un autocarro a metà del convoglio, in mezzo a bandiere rosse e gente. Io salii in macchina e mi misi dietro. Il viaggio durò un paio d’ore. Persi di vista sia Mauro, sia il suo camion, quasi subito. Arrivammo mentre il buio cominciava a farla da padrone.

<<Com’è andata?>>, domandai a Mauro.

<<Bene, credo. Vedremo i risultati una volta stampate le foto. Faceva un freddo bestiale là sopra. Devo andare a bere qualcosa di caldo e subito ⎯ rispose ⎯ Comunque è veramente incredibile: solo stamattina volevano linciarci, adesso siamo diventati amici per la pelle. Mi hanno invitato nelle loro comunità per vedere come vivono. Non finivano mai di chiedermi come si vive da noi. C’è ancora molto di questa gente che non abbiamo capito>>

Chiuse la portiera e accesi il motore del Bochito. Ci avvicinammo a Benito, indaffarato a dare disposizioni alle centinaia di persone ferme nello spiazzo alla periferia di San Cristobal. Abbassai il finestrino:

<<Olà Benito, noi andiamo! Grazie di tutto. Le foto verranno bellissime!>>

<<Lo spero bene. ⎯ disse salutando con la mano ⎯ E mi raccomando, parlate di noi in Italia>>.

<<Certo, puoi starne sicuro!>>

Ingranai la marcia e partii, raggiungendo la prima pasticceria che incontrai nel centro della città.

Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009. 

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