La frontiera sottopelle

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Foto: M. Canapini 

Nel febbraio 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa e dopo aver “attraversato” la Jungle di Calais, approdo a Bruxelles, con l’intento di raccogliere nuove voci e dissensi. Condivido un estratto di quel racconto corale, fissato sulla carta tra binari spenti e cittadini solidali. 

Le fondamenta della stazione Gare du Nord di Bruxelles sono piene di corpi raggomitolati. Mezzo mondo in attesa dei passeur: ghanesi, tunisini, maliani, afgani, somali, curdi, egiziani, eritrei. Laurent, 26 anni, antropologo. “Per chi cerca un aggancio o per chi ha finito i soldi la stazione di Bruxelles è un buon rifugio, ma al contrario di altri paesi, qui non ci sono associazioni solidali, solo il sostegno spontaneo della cittadinanza, che ospita in casa, a rotazione, profughi e migranti. Impossibile dire quanti siano. Dopo lo sgombero di Calais molti di loro si sono spostati qui a Bruxelles, soprattutto eritrei, egiziani e sudanesi”. Beviamo un caffè in compagnia di Abasi, poco più che adolescente; i nostri destini si incrociano per caso, in un bar pieno di studenti. “Vengo dalla Guinea Conakry. A cinque anni, causa povertà, i miei genitori mi hanno affidato a uno zio paterno che si è rivelato essere molto violento. Il 20% del mio corpo riporta le cicatrici delle ustioni inferte. Un amico mi ha aiutato a scappare verso la Libia e l’Europa, poi. Non voglio parlare di quel che è successo in carcere. In mare la nave Aquarius, di SOS Méditerranée e Medici Senza Frontiere ci ha tratto a bordo quando già eravamo mezzi affogati… Il barcone si era rovesciato mezz’ora prima. Ho attraversato mezza Europa in treno, superando Ventimiglia nel mese di maggio. Quando sono arrivato a Bruxelles, i medici mi hanno fatto un test alle ossa, per capire se fossi davvero minorenne. Mi sono sentito a disagio; è un’ulteriore forma di discriminazione, così come le impronte digitali, un confine dentro te stesso.

Abbiamo una frontiera sottopelle che nessuno può capire. Ora vivo in un centro d’accoglienza con altri quaranta minori non accompagnati, frequento la scuola statale e da tre mesi per due volte alla settimana faccio visita a una famiglia locale per far pratica con la lingua belga. Nel frattempo attendo fiducioso i documenti e la protezione umanitaria. Tutto sommato sta andando bene, ma so che molti conoscenti, pur avendo alle spalle storie drammatiche come la mia non raccontano nulla di fronte la commissione, un po’ per vergogna, dignità, fatalismo. Personalmente ho chiesto aiuto a una psicologa per metabolizzare il mio passato… Ho incubi ogni notte.” Abasi il matematico, che sogna un impiego redditizio con la NASA e veste sempre di rosso. “Che cosa significa andarsene?” chiedo. “Significa nostalgia. Non volevo andarmene dalla Guinea, sono stato costretto. È difficile vivere in Occidente perché ti senti estraneo, pensi sempre, rifletti a lungo, agisci poco e rischi di cadere in depressione. Non sono un Dublinante, quindi una volta che otterrò i documenti sarò libero di viaggiare. Qui sopravvivo e, per fortuna, in quanto minore, ricevo un sussidio minimo che però non basta mai. Ogni giorno è una pagina della vita, ogni pagina è un libro”. Scavalcare i tristi muri dell’uomo cela qualche segreto: permette di scoprire che ogni cosa è connessa e che tu sei un altro me o che gli altri siamo noi. Già pronti per uscire, domando infine: “Cosa pensi dei muri Abasi?”. “Il lato positivo dei confini è che fungono da protezione in vista di guerre e persecuzioni. È una piccola parte rispetto al negativo, poiché una frontiera, comunque la vedi, discrimina, la senti sulla pelle la privazione della libertà. I confini però sono necessari”. Dalla Square de la Putterie intravediamo la bandiera d’Europa ballare sopra palazzoni di vetro. 

Il Belgio è una terra di confine. Che cos’è dunque un muro? Che senso ha una società che militarizza i confini quando la corruzione regna padrona? Perché in Europa protestiamo contro le frontiere ma non contro la guerra?” si chiede Laurent, mentre mi accompagna a casa di Valentine, una dei duecento volontari della piattaforma virtuale Hébergement Plateforme Citoyenne. Lei, dopo un tentennamento iniziale, racconta: “Grazie al passaparola, circa due anni fa è nato un movimento solidale dal basso per tentare di aiutare i migranti e profughi in transito. Nel novembre 2018 ho voluto fare la mia parte, ospitando un giovanissimo ragazzo sudanese e successivamente una coppia di eritrei. Ospitare persone di questo tipo permette di toccare con mano tutte quelle sfumature invisibili che i media non raccontano. Attualmente è legale ospitare migranti in casa, ma sappiamo che in Francia non lo è più e temiamo che presto le cose cambieranno anche qui. È una conseguenza pragmatica delle politiche xenofobe europee. Ho incontrato tante persone diverse tra loro che nell’ospitalità emergenziale si sono riscoperte comunità: nonni, coppie giovani, borghesi, proletari, meccanici, impiegati. L’importante è mantenere un profilo basso, evitare sempre dati e indirizzi precisi. Offriamo poco, dopotutto: spezie, lenzuola pulite, un pasto caldo, chiacchiere. Tante persone si stanno unendo alla rete. Il tempo passa e loro, i migranti, diventano parte della famiglia, perché un conto è seguire l’immigrazione attraverso uno schermo, un conto è trovartela in casa il giorno di Natale”. Alain e Amèlie, altri due volontari, continuano: “Abbiamo aperto la nostra casa circa due anni e mezzo fa, la piattaforma mediatica Hébergement Plateforme Citoyenne ancora non esisteva. Il primo approccio è stato rivolto al genere femminile; abbiamo cominciato a ospitare solo per una notte, ma piano piano vedevamo le stesse facce e ci scambiavamo i numeri del telefono. Abbiamo messo in campo diverse tipologie di sostegno: chi non aveva disponibilità di spazi, come membro del gruppo, si impegnava a cucinare o trasportare gli interessati. Tutto si è ampliato con la creazione della piattaforma. Inizialmente c’era un po’ di timore ma siamo arrivati al punto di lasciare ai ragazzi le chiavi di casa, con tutto quello che c’è dentro”. Ancora dormiente, Juma discende le scale a chiocciola e si accomoda a capotavola. L’ex agricoltore sudanese, 32 anni, proviene dalle montagne di Nuba, nel Kordofan meridionale. Vive con la coppia da quattro mesi esatti. “Sulle nostre montagne infuria una guerra decennale. La regione è attualmente sotto il controllo del governo centrale e un accordo di pace comprensivo non prevede la cessione di questo territorio nel Sudan del Sud. La situazione ambigua e l’incremento delle violenze potrebbe trasformare una guerra a bassa intensità in un conflitto brutale, come successo precedentemente in Darfur, nel febbraio 2003. Risalendo l’Europa ho dovuto scavalcare due volte Ventimiglia e Mentone, perché al primo tentativo il governo belga mi ha rispedito indietro a causa delle impronte digitali prelevatemi a Siracusa. Mi hanno tenuto sette giorni a Milano, dopodiché ero di nuovo libero: Nizza, Marsiglia, Lione, eccetera. Ci ho impiegato giorni a raggiungere di nuovo il Belgio; i controllori di turno mi chiedevano di mostrare documenti e biglietto, la conclusione era sempre la stessa: scendi alla prossima fermata o chiamo la polizia. A parte quella volta che mi sono addormentato sull’asse ferroviaria Bruxelles-Strasburgo e il controllore mi ha svegliato che eravamo già entrati a Lussemburgo. Temevo il peggio! Invece quell’uomo in divisa mi ha regalato un biglietto per Arlon, prima città belga oltreconfine”. Juma mantiene l’impeto allegro del cantastorie, condividendo l’escalation di imprevisti come fossero frivoli passatempi. “Sono molto grato ai cittadini di Bruxelles. Non ho mai sentito questa vicinanza prima d’ora, né in Italia né tanto meno in Francia. Un giorno vorrei fare la mia parte per sdebitarmi”. “Che cosa vorresti fare una volta raggiunto il Regno Unito?” chiede Laurent, incuriosito. “Vorrei diventare un mediatore culturale per aiutare i migranti come me. So cosa significa soffrire, cos’è il dolore. Ho testato sulla mia pelle la follia della Libia… mezza Africa muore in Libia, dove lavori come una bestia e per ricompensa ricevi cipolle”. Più della metà delle trentasei persone ospitate da Alain e Amèlie ha raggiunto gradualmente il Regno Unito. Di tutte le anime di passaggio, la coppia serba resta un ricordo indelebile. L’istante di un saluto per scoprire da Euronews che, nonostante i controlli, nella notte tra sabato e domenica cento migranti si sono introdotti illegalmente nel porto di Calais. Una parte di questi è riuscita a imbarcarsi su un traghetto alla volta dell’Inghilterra. La polizia ha arrestato oltre sessanta persone. La situazione è rimasta critica fino a domenica mattina, quando alcuni dei migranti hanno opposto resistenza all’intervento delle forze dell’ordine, arrampicandosi su una passerella dell’imbarcazione. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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