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Università: la rivoluzione del saper fare
Consumo critico
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Esami di maturità finiti. E adesso? Migliaia di studenti si avviano a una scelta importante. Quale Università frequentare? E dove? Ma a monte di queste domande ce n’è una ben più impegnativa: frequentare un’Università vale ancora la pena?
In un momento in cui giovani e adolescenti sono alla ricerca di una strada da percorrere verso il loro futuro, mentre il brain storming impazza, le visite di orientamento si infittiscono e alcuni già sono pronti ad affrontare i primi test di ammissione, noi oggi divaghiamo. Un po’, ma non troppo. E vi parliamo dell’Università del Saper Fare. Sì, avete capito bene. Vi raccontiamo cioè di un gruppo operativo dei Circoli territoriali del Movimento della Decrescita Felice, il cui primo nucleo è stato attivato a Torino nel 2009, con l’organizzazione di alcuni corsi. Un’intuizione quasi eversiva, potremmo dire, che passa parola sul pensiero della decrescita e dell’autoproduzione avvicinandovi le persone nella pratica di piccoli gesti, ma che scardina soprattutto le regole del do ut des economico, seguendo la logica dello scambio e del dono: valore effettivo, simbolico e politico. Una piccola rivoluzione. Un modo per creare legami sociali, recuperare un senso di ciò che è collettivo, conviviale, condiviso. Ma anche per rivalutare il “fare”, o meglio “il sapere, il fare, il saper fare e il far sapere”.
Anche se, diciamo la verità, il verbo fare ci è quasi un po’ antipatico, associato a discusse (e discutibili) iniziative di governo e ansie da prestazione occupazionale. Allo stesso tempo però percepiamo vivo il bisogno di riprenderci una parola che ci appartiene, scrollandole di dosso la polvere e recuperando quella manualità e quella concretezza che abbiamo perso – forse un po’ anche sui banchi di scuole e università – lungo le generazioni. E ciò non significa affatto perdere il piacere, la passione e la volontà di studiare, conoscere, curiosare tra i libri e tra i caffè letterari (reali o virtuali che siano). Significa piuttosto attuare un ragionato distacco da quel modello consumistico adottato di fatto in maniera incondizionata dalle nostre società (e non solo da quelle occidentali, va sottolineato), basato su un rapporto schizofrenico e frenetico con prodotti usa e getta, concepiti per durare il meno possibile, per costringerci a sostituirli anziché a ripararli. Per non parlare dei costi di smaltimento, delle tonnellate inutili di imballaggi… Sì, è decisamente giunta l’ora di uscire dall’“economia del dolore e del petrolio”, per riprendere un’efficace immagine di Marco Boschini.
Il saper fare, che ha sempre rappresentato un tratto caratterizzante di molte civiltà in quasi tutte le epoche storiche, viene ora rivalutato nei termini di una rivoluzione culturale, con la riscoperta di una quantità incalcolabile di vantaggi: dal riprendere letteralmente in mano abilità perdute, all’accedere a beni e servizi primari limitando acquisti e spostamenti, al risparmiare, allo sperimentare nuove dimensioni entro cui inaugurare un nuovo valore del tempo e delle soddisfazioni connesse al lavoro.
Una riflessione va spesa anche a favore del fatto che in questo contesto il “fare” assume un significato del tutto opposto rispetto alla frenesia che governa il quotidiano cui siamo abituati. In contrapposizione al “produrre fine a se stesso” si valorizza quella póiesis che ha più a che vedere con l’estro e l’ingegno, con la condivisione e con il piacere di liberarsi dalle molte e vincolanti dipendenze che condizionano l’uomo post-moderno. In qualche modo la praxis, l’azione pragmatica pura, si fa ispirazione, pensiero creativo ben lungi dall’essere astrazione, anzi, più vicino alla poesia in potenza, che si fa atto nella pratica di ogni giorno.
Da questo atteggiamento nasce una consapevolezza di quanto valore – e potere sul proprio ben-essere – abbia la riacquisizione dell’autonomia per l’individuo, che si realizza nel pieno delle sue potenzialità dando spazio all’espressione.
Per un’offerta più completa e accattivante, l’Università del Saper Fare ha elaborato un proprio manifesto a cui devono aderire i circoli territoriali del Movimento della Decrescita Felice e le associazioni che intendono attivare percorsi formativi da inserire tra le opzioni disponibili: i corsi devono essere proposti da enti senza scopo di lucro e se prevedono una quota associativa, un’offerta o un costo dovranno essere in ogni caso dei “costi popolari”. L’obiettivo dovrà essere quello di migliorare la qualità della vita incentivando pratiche di autoproduzione, insegnamento di saperi e tecniche, trasmissione della conoscenza e confronto tra generazioni. Pilastri di queste attività dovranno essere, come già sottolineato, le logiche del dono e dello scambio (a scapito di quelle retributive) e le proposte dovranno prevedere il recupero di quelle pratiche tradizionali che, come molte abilità delle maestranze artigiane, si stanno perdendo soffocate da dinamiche di massa che rendono prodotti e produttori parte di un’unica indifferenziata “zona opaca”.
Come facilmente si evince si tratta di una proposta chiara e praticabile, alla portata di ciascuno di noi. Anzi, diremo di più: è uno strumento strategico grazie al quale “ogni singolo individuo può agire in modo immediato, concreto e diretto per migliorare la propria condizione e il proprio rapporto con l’ambiente, modificando progressivamente il proprio stile di vita in modo anche divertente, coinvolgente e sicuramente economico”. In definitiva, uno strumento per affrontare il sentimento diffuso di disagio nei confronti di un sistema sbandato e in agonia.
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