Il cane in tavola no (ma gli altri animali sì?)

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Cultura e religione che vai, tradizione e cibo che trovi. Non sarà diverso neanche quest’anno quando, analogamente a quanto accade con i nostri agnelli a Pasqua, a Yulin in Cina si festeggerà il solstizio d’estate con la carne di cane. La tradizione locale vuole che mangiare carne di cane e litchi, bevendo liquore, sia ben augurante e permetta di godere di buona salute durante il prossimo inverno. Per questo anche quest’anno il Festival di questa metropoli cinese con oltre 5 milioni di abitanti  in programma il 21 giugno si preannuncia come l’ennesima ecatombe per 10.000 cani destinati alle tavole dei partecipanti durante una “festa” esclusivamente a base della carne del migliore amico dell’uomo.

Mangiare carne di cane in Cina (dove in questi giorni è in corso ben altra emergenza), come in Vietnam, Thailandia e in altri Paesi del Sud est asiatico non è un tabù come in Occidente anche se recentemente è stato proibito a Taiwan, nelle Filippine, a Singapore e a Hong Kong. Stando alle statistiche riportate dall’ufficio di Pechino della World Animal Protection, in Cina la carne di cane viene mangiata da migliaia di anni e in alcune parti del Paese è considerata una pratica socialmente accettabile o necessaria per contrastare la fame, tanto da essere incentivata anche dalle amministrazioni locali, registrando così ogni anno nel Paese la macellazione di circa 25 milioni di cani. Per la ong però “La cultura non è mai una buona scusa per essere crudeli” e “la pratica di mangiare carne di cane, non solo nel corso del Festival di Yulin, desta oggi sconforto e indignazione”. È dello stesso avviso anche la Lega Anti Vivisezione (Lav) secondo la quale “Le tradizioni culinarie non possono essere pretesto di crudeltà e devono evolversi per allinearsi anche alla sensibilità internazionale, che trova sempre più ingiusto cibarsi di alimenti derivati dalla sofferenza e dalla morte, come dimostra il sempre crescente numero delle persone che hanno abbandonato l’alimentazione a base di prodotti animali”.

Sebbene negli ultimi anni gli animalisti cinesi e internazionali abbiano riportato diverse vittorie, in primis la fine dell’analoga sagra di carne di cane a Jinghua, anche quest’anno la lotta al festival di Yulin sembra una specie di tabù. “Abbiamo per questo chiesto - ha spiegato la Lav - in una lettera all'Ambasciatore della Repubblica Cinese a Roma, Li Ruiyu, di farsi portavoce della nostra richiesta alle autorità competenti del Governo di Yulin, affinché non autorizzino la sagra della carne di cane”. “All’Ambasciatore cinese abbiamo anche chiesto di farsi portavoce presso le autorità competenti della Repubblica Popolare Cinese delle richieste di proibire il consumo di carne di cane e di gatto, e di emanare interventi legislativi e pratici a tutela degli animali, che ne garantiscano il benessere e il rispetto quali esseri viventi” ha concluso la Lav. 

Secondo Deng Yidan, di Animals Asia, la pratica, oltre a provocare violenze e abusi sui cani, danneggia l’immagine della Cina agli occhi del mondo. “La copertura mediatica negativa aumenta, su furti di cani, attività criminali, questioni igieniche, timori di infezioni da rabbia, per non citare la divisione nella società tra chi è pro e chi contro al Festival: tutto questo fa una pubblicità sempre più negativa a Yulin, più che dare un ritorno economico”. Per ora il Governo di Yulin ha tentato di distanziarsi dal Festival dicendo che non è appoggiato formalmente dall'amministrazione, ma per gli animalisti non è abbastanza. Per Xiao Bing, vice presidente della locale Associazione per la protezione degli animali, la tradizione vantata dal Festival è solo una scusa rischiosa anche per la salute pubblica. Il festival di Yulin ha, infatti, appena vent’anni di storia, “è quindi completamente inappropriato considerarlo come una tradizione di lunga data” e soprattutto “bisogna che gli animali portati al macello subiscano un controllo sanitario perché possono essere portatori di malattie trasmissibili agli esseri umani”. Secondo il Ministero della sanità cinese nel Paese ogni anno muoiono tra le due e le tremila persone per aver contratto il virus della rabbia e “La maggior parte dei cani venduti durante il festival di Yulin vengono dal mercato nero”, ha spiegato Bing. Un comportamento che viola un regolamento emanato dal ministero dell’agricoltura secondo il quale “ogni trasporto e ogni transazione che abbia come oggetto un cane deve essere accompagnata da un certificato che garantisca che l’animale sia stato prima messo in quarantena”. Ma la quarantena costa in Yuan l’equivalente di circa 30/40 Euro per animale, una cifra che in pochi sono disposti a spendere, per questo “è necessario che le ong si uniscano a chi ha l’autorità di far rispettare le leggi almeno a garanzia della salute”, ha concluso Bing.

Un analogo passaggio lo chiede da anni e non solo per la Cina anche la Soi Dog Foundation, nata in Thailandia proprio per contrastare il mercato di carne di cani e gatti, ma attiva sul piano internazionale. “Ogni anno decine di migliaia di cani vengono ammassati in gabbie troppo piccole per contenerli e trasportati in condizioni terribili dalla Thailandia al Vietnam nel nome del commercio della loro carne. Creature disidratate, affamate, stressate, costrette a viaggiare in condizioni di aberrante sovrappopolamento per andare a morire in un macello”. Per loro è stata attivata anche una petizione su Firmiamo.it, con una raccolta firme che si appella ai leader politici, agli enti, alle associazioni e ai singoli cittadini chiedendo “che non si faccia finta che questa tragica mattanza non esista e si metta fine a questo commercio”. Una situazione che nonostante le bufale che circolano da anni on line annunciando l’entrata in vigore di una fantomatica certificazione Europea di commestibilità che consentirà l'importazione di carni congelate di cane per la commercializzazione legale nei Supermarket gastronomici etnici, non toccherà mai L’Europa.

Gli amanti degli animali domestici, quindi, possono stare tranquilli: se il miglior amico dell’uomo arriva fino alla nostra tavola qui nell’Unione è ancora per starci sotto ad implorare un po’ di cibo e sarà ancora possibile con una mano accarezzare il proprio cane e con l’altra mangiare qualsiasi altro animale... Per gli amanti degli animali in quanto tale invece non cambia niente: cane, maiale, vitello, polli, cavallo, agnello… il dolore che prova un animale da “compagnia” non è diverso da quello di uno da “latte” o da “carne” e la catena industriale della produzione, dal devastante impatto ambientale, fa il resto con un "prodotto" spesso di pessima qualità e non proprio salutare.  Certo il trasporto emotivo e il legame stretto che ormai si è instaurato con il cane in Occidente ne rende difficile il consumo. Ma animalisti o no, non nutrirsi di animali oggi non è solo una questione legata al tipo di animale e non dovrebbe rendere chi lo fa il “diverso”. Rispettare la vita, il pianeta e la propria salute non mangiando animali (di tutti i tipi) è piuttosto una scelta possibile e responsabile che rende il nostro impatto ambientale decisamente più sostenibile. Non è certo l’unica, ma è un cambiamento che può facilmente iniziare da ognuno di noi, anche subito.

Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.

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