Australia: il vero costo del “cibo locale”

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Un’esperienza di lavoro in un paese lontano, quasi un altro mondo, e in più l’opportunità di imparare l’inglese mettendosi in tasca qualche soldino: sono queste le ragioni che portano molti ragazzi, anche italiani, a recarsi in Australia usufruendo dello speciale visto turistico “417”, e a lavorare come braccianti nelle aziende agricole o nelle fabbriche di cibo confezionato. Chi pensava però che questo ambiente fosse immune dallo sfruttamento a cui siamo abituati ad assistere altrove – nei campi e nelle fabbriche nostrani, ad esempio – quest’anno si è dovuto ricredere, gli australiani in primis.  Come spesso accade, la bomba è esplosa grazie a un’inchiesta giornalistica TV, che ha fatto molto scalpore rivelando l’esistenza di condizioni di schiavitù, abusi e lavoro nero che colpiscono soprattutto i lavoratori più vulnerabili, ovvero gli immigrati – regolari e irregolari – e le donne.

L’inchiesta parla di circa 150.000 titolari di visto, che ogni anno arrivano in Australia soprattutto da paesi come Hong Kong, Giappone, Corea del Sud, Taiwan (la stragrande maggioranza), ma anche dall’Europa. Il visto 417 permette ai visitatori di rimanere nel paese per un massimo di 12 mesi. E’ prevista una proroga di un altro anno – il " secondo visto per vacanza-lavoro" – a stretta condizione che si sia lavorato in modo continuativo in aree specifiche, di solito nel settore agricolo o in fabbrica. Chi si occupa di reclutare direttamente i lavoratori, però, non sono quasi mai i proprietari delle aziende, i quali si affidano a degli intermediari in sub-appalto. Questi ultimi, tramite degli annunci su Facebook o nei siti di ricerca lavoro, puntano proprio ai migranti col visto turistico già da quando stanno in patria, organizzando il trasporto, il reclutamento, gli uffici e l’alloggio per i propri lavoratori. In questo modo, sollevano il proprietario dei campi o delle fabbriche degli oneri amministrativi, compreso il pagamento dei salari. E’ l’intermediario infatti che, una volta ricevuta la somma totale dall’azienda madre, si occupa di redistribuire gli stipendi ai braccianti e agli operai che ha reclutato. Il più delle volte intascandosene una grossa parte.

L’indagine giornalistica, andata in onda sul programma dell’Abc, Four Corners, ha portato alla luce prove e testimonianze di come questi procacciatori di lavoro decurtassero pesantemente gli stipendi dei loro lavoratori, lasciandoli con un salario ben al di sotto del minimo legale, che sarebbe di 16,87 dollari australiani l’ora, quindi un ottimo salario pur commisurato all’alto costo della vita. Peccato che molti di questi lavoratori finiscano per prendere anche la misera cifra di 3-4 dollari l’ora. Sono sempre questi individui che, tramite contratti fittizi, costringono i ragazzi a vivere stipati in container sovraffollati, detraendo l’affitto dallo stipendio, mentre i neo-assunti devono sottostare a orari di lavoro estenuanti, senza i più elementari diritti come le pause per andare in bagno o i giorni di malattia. Con una conoscenza della lingua inglese limitata, isolati e impauriti, molti di questi immigrati (soprattutto gli asiatici) non conoscono le leggi, né sanno dove poter chiedere aiuto. Se parlano o si lamentano, vengono minacciati di licenziamento, spesso vengono segnalati all'ufficio immigrazione e perfino deportati. Per le ragazze, poi, la situazione è ben peggiore: come racconta ad esempio Eve, che dopo aver subito molestie sessuali dal suo reclutatore-caporale, ha finito con l’essere licenziata. E come lei tante altre.

Nonostante le denunce, è raro che vengano presi provvedimenti contro queste persone, a cui le autorità australiane difficilmente riescono a risalire. Questi procacciatori di lavoro, infatti, sono spesso conosciuti solo col nome proprio, o assumono false identità, e cambiano continuamente il numero di cellulare. E le società che stanno loro dietro sono ancora più difficili da identificare. Il report uscito il mese scorso ad opera dell’organismo indipendente Fair Work Ombudsman (FWO), che lavora a stretto contatto con la Fair Work Commission, cerca di far luce su questo sistema di frode sistematica, in cui i lavoratori, attraverso contratti fasulli, vengono trasformati in “autonomi”, liberando l’azienda appaltatrice di oneri e responsabilità. Le indagini del report si concentrano sulla Baiada, la più grande azienda australiana di lavorazione del pollame, che produce diversi marchi famosi e rifornisce catene di supermercati come Woolworths, Coles, o fast food come McDonald, KFC e Pizza Hut. Anche questa azienda si serve di intermediari per il reclutamento della forza lavoro, con catene di sub-appalti a livello sempre più basso che, come si legge nel report, hanno finito per coinvolgere 34 entità separate in totale: “Non c'erano accordi scritti e il modello invocava un alto livello di fiducia”. Difficile risalire ai nomi di molte aziende sub appaltatrici, a quanto sono state pagate dall’azienda madre, e quanto queste hanno realmente pagato i lavoratori, anche perché i direttori sono volatili, molti degli indirizzi forniti sono risultati inesistenti e soprattutto molte di queste società si sono sciolte durante l’inchiesta. Entrando in liquidazione, spesso risorgono sotto altro nome, guidate dalle stesse persone e con le stesse attività e scopi della precedente, ma senza più gli oneri e gli obblighi verso i creditori (si tratta delle cosiddette “phoenix companies”, contro cui il governo australiano ha già organizzato una task force).

Ora che la situazione è sotto gli occhi di tutti, l’Australia vuole comunque evitare di farne solo un problema di immigrazione. Il governo ha annunciato una serie di misure che coinvolgeranno diversi dipartimenti governativi per reprimere questi comportamenti, mentre il FWO ha intrapreso attività e collaborazioni per educare i coltivatori ai loro obblighi, informare i lavoratori sui loro diritti ed estirpare lo sfruttamento attraverso azioni anche legali. Il problema, però, è ancora più vasto. C’è l’ostinata cecità dei fornitori principali che, nonostante i subappalti, “non sono comunque abrogati da certe responsabilità nei confronti dei loro lavoratori”, così come l’approccio lassista di molti dei principali supermercati e catene di fast food, che potrebbero fare molto contro questi comportamenti e invece si limitano a lanciare blandi comunicati su un presunto “impegno etico” delle aziende. C’è infine un sistema economico globale in cui il cibo non è più solo cibo, ma è diventato una merce entrata nelle guerre dei prezzi. La pressione delle catene sui fornitori per avere prezzi sempre più bassi porta alla produzione di manufatti alimentari che spesso di cibo hanno ben poco, ma il cui prezzo comunque non corrisponde al reale costo per la loro produzione. E qui l’infiltrazione delle organizzazioni criminali ha gioco facile. Come si vede anche nel documentario dell’Abc, molti agricoltori in pratica ammettono che, senza quelle forme di sfruttamento, dovrebbero chiudere baracca. Il che non è certo un alibi. Oggi però nessuno può far finta di non sapere e, insieme a un’azione forte delle istituzioni e dei sindacati, anche il singolo cittadino può fare la sua parte, anche solo scegliendo più attentamente ciò che mette sul proprio carrello della spesa. Che sia in Australia, in Italia o in qualsiasi altro paese in cui queste forme di sfruttamento vengono portate alla luce.

Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

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