Un grido disperato e violento dall’Amazzonia ecuadoriana

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Un chi: le popolazioni indigene. Un cosa: il fenomeno del land grabbing (accaparramento dei terreni). Un dove: la zona orientale dell’Ecuador nella foresta amazzonica. Un quando: gli inizi di aprile. Individuare un perché negli scontri che si sono verificati nelle ultime settimane tra alcuni popoli indios dell’Amazzonia ecuadoriana è invece meno facile.

È il presidente della Federazione nazionale degli indigeni dell’Ecuador (CONAIE), Humberto Cholango, a escludere che l’ondata di violenza possa essere derubricata a banale problema tra indios, dichiarando che “i tragici fatti di cronaca sono il risultato di un problema strutturale. Il modello di sviluppo seguito da parte dello Stato ecuadoriano dall’inizio dell’era del petrolio non ha fatto altro che aumentare la pressione sulla vita delle nazionalità indigene. Le pressioni sui territori indigeni hanno provocato conflitti tra i Waorani e le tribù dei Tagaeri e Taromenane, incontri che si sono trasformati in scontri violenti”.

Il processo storico a cui viene accennato è incontrovertibile. Lo sfruttamento dell’Amazzonia ecuadoriana e la colonizzazione accelerata e incontrollata di territori incontaminati hanno indotto le popolazioni indigene a un trasferimento forzoso, a causa della trasformazione del loro habitat e della diminuzione delle fonti di sopravvivenza provocate dall’inquinamento e dal rumore delle aziende. Tra i Waori da un lato e i Tagaeri e i Taromenanis dall’altro si è scavato un fossato profondo. Se i primi infatti sono entrati in contatto con il mondo esterno e in molti lavorano nelle stesse compagnie petrolifere e minerarie per potersi procurare strumenti per la caccia e la pesca, gli altri due gruppi hanno rifiutato ogni tipo di relazione con l’esterno e vivono in una zona impenetrabile della foresta amazzonica nel Parco Nazionale Yasuní.

Non c’è da stupirsi quindi della strage compiuta il 5 aprile scorso da un gruppo di guerrieri indigeni Waorani: 18 persone del gruppo di Taromenane sono rimaste uccise, anche se la dinamica dei fatti è ancora sconosciuta ed è ancora da verificare il numero esatto delle vittime. Presumibilmente il movente è la vendetta, in risposta al massacro di una coppia di Waorani uccisi nella provincia di Orellana il 5 marzo. I Taromenane avrebbero espresso così la loro rabbia per il rumore, la deforestazione e le piattaforme petrolifere sparse per tutto il loro territorio, attribuendo inoltre forti responsabilità ai Waorani, che non avrebbero fatto abbastanza per impedire questa incursione nella loro patria ancestrale.

L’appello lanciato da Amazon Watch al governo ecuadoriano a “rispettare e far rispettare il piano per la protezione di una zona totalmente incontaminata, esente da ogni tipo di sfruttamento industriale” appare lontano anni luce dai piani governativi. Quito si accingerebbe infatti a mettere all’asta oltre tre milioni di ettari di foresta amazzonica, aprendo così la strada a nuove esplorazioni petrolifere, in particolare a quelle cinesi. Secondo diverse ong, le nuove deportazioni di popolazioni indigene conseguenti allo sfruttamento dei territori costituirebbero una violazione sistematica “dei diritti sulle terre ancestrali”. La salvaguardia dei diritti umani dei popoli indigeni e tribali è stata infatti riconosciuta nel 1989 dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), l’unico strumento legislativo internazionale di protezione esistente per indurre gli Stati a garantire in modo efficace l’integrità fisica e spirituale dei popoli indigeni e a lottare contro ogni forma di discriminazione nei loro confronti.

In realtà, nel 2006 il governo dell’Ecuador si era impegnato per la tutela delle tribù indigene dell’Amazzonia con la Commissione Interamericana per i Diritti Umani, dopo le ripetute sollecitazioni ricevute in tal senso. Impegno a cui non era purtroppo seguita un’azione concreta, ma addirittura una in senso contrario. Nel timore di una escalation degli scontri, e dunque di un attacco di risposta dei Taromenane, molti auspicano un severo intervento della stessa Commissione multilaterale; questa, oltre a imporre sanzioni all’Ecuador, dovrebbe soprattutto delineare un piano regionale di sviluppo sostenibile del territorio, che scongiuri i massacri e al contempo salvaguardi le popolazioni indigene e il loro patrimonio culturale.

Miriam Rossi

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