Petrini: come il libero mercato legittima il furto delle risorse primarie dei popoli africani

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Foto: Unsplash.com

Di Carlo Petrini

L’Africa è un continente dalle molteplici contraddizioni alimentari; pagate a caro prezzo in termini di perdita di biodiversità e insicurezza alimentare, nonché esacerbate dalla crisi climatica. Per spiegare cosa intendo ricorrerò a alcuni alimenti presenti sulle nostre tavole, che celano una fitta trama di relazioni infelici.

Il pomodoro

Partiamo dal pomodoro: per soddisfare la domanda interna italiana ne importiamo una parte dell’estero, con un trend in aumento specialmente dalla Cina (maggiore importatore in Italia, come in tutta la Ue). Succede però che il pomodoro cinese arriva nella Penisola a un prezzo talmente inferiore (per via di un più basso costo della manodopera e un uso della chimica oltre i limiti imposti dall’Ue) da non rendere competitivo quello italiano.

Per guadagnare fette di mercato, in Italia c’è chi ricorre al caporalato (il lavoro è la voce di costo più alta nel bilancio di un’azienda agricola), pratica criminale che sfrutta i migranti – braccianti privandoli di ogni tipo di diritti e dignità. Tra le tante storie di vita dei migranti vi sono anche giovani africani che qui fanno un mestiere analogo a quello dei loro Paesi.

Capita, infatti, che lo stesso pomodoro cinese venga inscatolato in Italia e venduto, sotto forma di pelati o concentrato, per esempio in Ghana dove vi è una forte tradizione gastronomica. Qui infatti fino a 20 anni fa l’economia legata alla coltivazione e alla vendita del pomodoro era fiorente. L’arrivo di prodotti cinesi, etichettati con il tricolore, con una shelf life più lunga e dal prezzo inferiore, ha generato un effetto dumping tale da disincentivare la produzione locale. Ed ecco che c’è chi per via della povertà, acutizzata dalla crisi climatica galoppante, si trova costretto ad attraversare deserti e mari nella speranza di una vita migliore. Chi non muore nel Mar Mediterraneo, a oggi il cimitero più grande d’Europa, corre il rischio di ritrovarsi lontano dagli affetti a fare lo stesso lavoro che avrebbe portato avanti nel proprio Paese, ma in condizioni di lavoro ai margini della schiavitù.

Il grabbing

Analizziamo poi la filiera nascosta dietro a pesci come il branzino, l’orata o il salmone. Ciò che li accomuna è l’essere specie carnivore, sempre più allevate e non pescate, che necessitano di ingenti quantità di farine e olio di pesce per essere alimentati. Questi sottoprodotti dell’industria della pesca provengono spesso da una dinamica che concentra le quote nelle mani di poche grandi compagnie estere, nota come ocean grabbing, e che è molto diffusa in Paesi come Gambia e Senegal.

Analogo a quanto succede in mare, i terreni fertili per esempio di Etiopia o Uganda sono soggetti al land grabbing; fenomeno che si riferisce all’acquisto o affitto a lungo termine di vaste aree di terra da parte di Paesi ricchi in capitale (Cina, Arabia Saudita, Paesi europei), ma poveri di terra fertile...

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