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PIL e lotta al cambiamento climatico: possono coesistere?
Conservazione
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Foo: Unsplash.com
Mentre i potenti della Terra discutono le strategie migliori per ridurre le emissioni dei prossimi decenni all’interno della COP26 di Glasgow, i movimenti ambientalisti capeggiati da Greta Thunberg invocano un riassetto radicale della nostra società a favore della salute del clima, e un impegno concreto verso la decrescita. A questo proposito ha fatto eco l’intervento di qualche settimana fa in Senato di Giorgio Parisi: “il prodotto interno lordo dei singoli paesi sta alla base delle decisioni politiche, e la missione dei governi sembra essere di aumentare il PIL il più possibile, obbiettivo che è in profondo contrasto con l’arresto del cambiamento climatico”. Non sono parole nuove, ma in questo caso rimbombano molto di più perché provengono dal Premio Nobel per la Fisica 2021, un professore già ampiamente ammirato a livello internazionale ben prima del riconoscimento dell’Accademia Svedese, perché eccezionale nella sua disciplina, i sistemi complessi, di cui il clima potrebbe essere un esempio. L’affermazione sembrerebbe ragionevole. Eppure, vista la difficoltà del problema, dev’essere il più possibile analizzata e contestualizzata.
In linea di principio ciò che dice Parisi è vero. Considerando invariati tutti gli altri fattori, a parità di energia utilizzata e a parità di “intensità carbonica” (volumi di CO2 generati per unità di energia consumata), quanto più cresce la produzione tanto più incrementano le emissioni, e quindi si altera il sistema climatico. Ne abbiamo avuto testimonianza nel corso del 2020 quando il forte stallo dell’attività economica e della mobilità per effetto del Covid-19 hanno causato una riduzione del PIL mondiale di oltre il 3%, e, allo stesso tempo, una contrazione delle emissioni di CO2 in atmosfera del 6,4%. Ciò nonostante, come sappiamo, le conseguenze, oltre a quelle umane dirette della pandemia, sono state tragiche: disoccupazione, impennata del debito pubblico, crollo degli indici di benessere, disturbi psicologici, e per la prima volta negli ultimi decenni, un aumento - di circa 100 milioni - del numero di persone che vivono in condizioni di povertà assoluta.
Parisi ha senz’altro ragione quanto sostiene che il PIL non può essere l’unica misura della salute di un’economia, e suggerisce l’utilizzo di altri indicatori, più focalizzati sulla qualità della crescita, tra cui l’indice di sviluppo umano (ISU). Tuttavia, ci si dimentica che i due indicatori sono parenti molto stretti: la correlazione tra loro è molto alta. Vale a dire che si tende ad avere una qualità di vita maggiore laddove il PIL è più alto, e viceversa. Questo è vero perché nell’ISU, accanto alle due variabili relative all’aspettativa di vita e al livello di istruzione, viene inglobato anche il livello di reddito come requisito per avere uno standard di vita decente. In realtà, il nesso correlativo non cambierebbe anche se escludessimo quest’ultima misura dall’indicatore. Dunque, il contributo informativo aggiuntivo nell’integrare l’ISU nelle decisioni politiche è piuttosto limitato. Con questo non dico che non se ne debba tener conto, ma il promuovere la netta sostituzione del PIL con quest’altro indicatore è un’osservazione fuorviante.
Sicuramente una variabile che ha ed avrà sempre più rilevanza sulla qualità di vita e sulla resilienza di un territorio è la vulnerabilità climatica, cioè l’esposizione agli eventi meteorologici e la capacità di fronteggiarli. Anche qui ci viene in aiuto l’evidenza empirica, la quale ci dimostra che dove si vive meglio - ed il PIL è più alto -, la vulnerabilità climatica è inferiore. Purtroppo, i paesi più poveri sono anche quelli più esposti ai rischi climatici derivanti dal riscaldamento globale, prodotto in larga parte dai paesi più ricchi – i paesi del G20 attualmente rappresentano l'80% delle emissioni globali. Se da un lato l’immissione massiccia in atmosfera di gas serra nel corso degli ultimi 150 anni ha incrementato la frequenza di alcuni eventi estremi, dall’altro sappiamo che la crescita economica e lo sviluppo della conoscenza scientifica si sono rivelate cure efficaci nel ridurre l’impatto climatico sull’uomo: al crescere del PIL, il numero di vittime si riduce drasticamente. Gli esempi sono molteplici, dall’aumentata resilienza del Bangladesh, fino alla riduzione della mortalità degli Stati Uniti. E lo squilibrio crescita-clima non è più così automatico.
Questo è vero perché la ricerca scientifica può prosperare solo in quei paesi che hanno le risorse per investirci. Ed è proprio grazie all’innovazione che i paesi ricchi hanno già fortemente ridotto le emissioni di inquinanti locali e, in misura più limitata, quelle di CO2, rivelando che una crescita moderata, compatibile con una riduzione delle emissioni e dei fattori inquinanti, esiste, anche se naturalmente si deve far molto di più. Un altro aspetto da non sottovalutare è la conservazione della biodiversità: nel periodo che intercorre tra il 1970 ed il 2010, a livello globale, si è registrata una tendenza di forte peggioramento, mentre in Europa Occidentale – culla di paesi ad alto PIL pro-capite - il numero delle specie è cresciuto del 36%.
Detto ciò, è auspicabile che si riesca a superare la visione monolitica dello sviluppo come mera crescita economica espressa dal PIL. Appare evidente che se vogliamo mantenere il nostro pianeta un posto vivibile, tutti – paesi ricchi in primis – dovremo fare sacrifici in termini di crescita, perché in modo consapevole o perverso saremo comunque vittime di un clima che continuerà a cambiare. Nel contesto attuale, senza un piano dettagliato e concordato tra i maggiori paesi, l’obiettivo della neutralità climatica per il 2050 rimane ancora un’illusione, come peraltro sottolineato dallo stesso Parisi. Un cambio di approccio è indispensabile. I dati elaborati dall’Atlante dei Rischi Climatici del G20 indicano che, nello scenario peggiore, cioè senza azioni urgenti per ridurre le emissioni di carbonio, le perdite di PIL dovute ai danni climatici saliranno ad almeno il 4% annuo entro la metà del secolo.
Non dimentichiamoci però che il PIL è ancora l’unica ancora di salvataggio per i paesi più poveri: negare l’importanza del PIL, vuol dire negare il diritto ad avere condizioni di vita più dignitose, inclusa una maggiore capacità di adattamento climatico. Accettare una diminuzione di reddito nei paesi occidentali per contenere le emissioni sarà probabilmente necessario, ma è altrettanto indispensabile capire che anche in futuro le condizioni di vita complessive, soprattutto per i paesi in via di sviluppo, dipenderanno molto di più dalla crescita del reddito che non dall’evoluzione del clima. L’India, le Filippine, così come la Cina, lo hanno già ribadito: dove finisce realmente il diritto dei paesi meno ricchi di crescere e migliorare la loro qualità di vita – attraverso maggiori emissioni -, e dove inizia il diritto di chi è già sulla buona strada di impedirglielo? La decrescita sembra poter essere felice solo per alcuni.
Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.