“In Sri Lanka ci manca solo la neve!”

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SRI LANKA - “In Sri Lanka ci manca solo una cosa. La neve!” Scherza il signor Budrin, direttore di uno dei tanti tour operator nati sull’isola in questi ultimi anni. È il caso piuttosto di dire “rinati”, una precisazione a cui chi ha a che fare col turismo da più anni delle dita di una sola mano ci tiene a precisare. Sì perché prima della guerra civile che per 25 anni ha flagellato il Paese, lo Sri Lanka era stata eletta terra di turismo seguendo una sorta di inclinazione naturale. “Sin dai tempi della regina Vittoria” aggiungono alcuni srilankesi, un particolare di cui in parecchi tendono a vantarsi. Temperatura mite tutto l’anno, correnti oceaniche che permettono di affacciarsi su spiagge accoglienti ad Est od Ovest a seconda della stagione, un patrimonio storico-culturale-artistico e religioso in grado di rivaleggiare con altri ben più reclamizzati, abbondanza di acqua in tutto il Paese grazie a uno stupefacente e antichissimo sistema di ingegneria idraulica, frutta, riso e l’immancabile curry a soddisfare il palato dei forestieri come delle classi più abbienti del Paese.

Eppure l’immagine rubata all’isola in poche settimane di viaggio stenta a sovrapporsi a un contesto post-bellico come uno può immaginarselo. Stupiscono gli sguardi sorridenti e sereni delle persone, quasi ad evidenziare che la presenza sempre più numerosa dei turisti in Sri Lanka corrisponde a un riconoscimento manifesto a livello internazionale della pacificazione del territorio. Non si avverte però affatto la preoccupazione per un rinfocolare della tensione tra il governo e la maggioranza cingalese della popolazione da una parte, e la minoranza tamil da cui è originato il cosiddetto LTTE, Tigri per la Liberazione della patria Tamil Eelam. Il gruppo militante nazionalista, che mirava a creare uno Stato autonomo nella zona nord ed Est del Paese, è stato letteralmente annientato dalle truppe governative negli ultimi sanguinosi mesi di guerra proprio nella giungla circostante la cittadina di Mallaivitu, nella penisola di Jaffna, punta settentrionale dell’isola protesa verso l’India. Si sono contati più di 100 mila morti alla fine della guerra scoppiata nel 1983, molti dei quali vittime civili tamil coinvolte nelle aspre battaglie conclusive della primavera del 2009, come ampiamente denunciato dall’ONU e da numerose ong nel tentativo vano di scongiurare il disastro umanitario. La propaganda governativa vuole che le voci internazionali fossero allora allontanate dal Paese per interrompere qualsiasi tentativo di infiltrazione dei terroristi tamil nelle file degli aiuti umanitari, consentendo la prosecuzione dell’azione repressiva. L’obiettivo del presidente cingalese Mahinda Rajapaksa (attualmente in carica) divenne quindi il completo annientamento della compagine militare tamil, con buona pace dei civili della medesima etnia incontrati sul cammino dell’esercito nazionale. Più di 40 mila persone morirono nelle ultime settimane di guerra: furono bombardate scuole, ospedali e accampamenti civili, vennero usate armi “non convenzionali” come bombe a grappolo e al fosforo; si sarebbe ricorso a stupri, torture, rapimenti, esecuzioni extra-giudiziarie di massa e trasferimenti forzati.

“Ora la guerra è finita”. Queste le semplici parole con cui in tanti hanno replicato alla richiesta di un’osservatrice desiderosa di saperne qualcosa in più. Ed è vero che dal 2009 non si sono più verificati episodi di terrorismo, di sollevazione o di vendette da parte delle cosiddette Tigri del Tamil. Emerge una grande voglia di lasciarsi alla spalle il conflitto e un indescrivibile desiderio di pace e di sviluppo. Proprio quello sviluppo economico che lo Sri Lanka, inclusa la penisola di Jaffna, sta iniziando ad intraprendere. Non solo per le sue piantagioni di tè stese sugli altipiani centrali dell’isola, ma piuttosto per la sua posizione strategica nella navigazione verso l’Estremo Oriente, per le sue produzioni di frutta e riso esportate in tutta l’area, per la delocalizzazione di impianti industriali dai vicini “giganti” indiano e cinese e, nondimeno, per i flussi turistici. Una crescita alla quale contribuiscono anche le rimesse degli immigrati srilankesi all’estero, da cui anche l’Italia è fortemente interessata.

Raccolgo sguardi perplessi se non stupiti quando rinfodero il mio scetticismo circa la straordinaria contrapposizione tra una conclusione tanto sanguinosa di una guerra civile e la positività con cui si parla della pacificazione attuale del Paese e della fratellanza dell’intera nazione che, a un primo approccio, non può che apparire innaturale e fittizia, se non temporanea. Non si è però trattato di una guerra di religione, questo è evidente nonostante la confessionalità indù dei tamil e il buddhismo professato dai cingalesi possano far pensare. Lo scambio fra queste due etnie, entrambe provenute dall’India nel corso dei secoli, ma percepite fra di loro a tutt’oggi come ben distinte, ha interessato proprio la sfera religiosa, dando vita a un incredibile magma di sincretismo religioso. Buddhisti, induisti, musulmani, cristiani cattolici, anglicani e riformati si incontrano e si confondono lungo le strade dello Sri Lanka, così come i diversi luoghi sacri di preghiera sparsi nel Paese. Il bilinguismo, tamil e cingalese, è stato imposto in tutto il Paese dalla fine del conflitto: nelle scuole, nelle indicazioni stradali e su ogni genere di documento più o meno ufficiale (dallo spot pubblicitario, ai moduli di registrazione in hotel, ai contratti). Lo Sri Lanka tuttavia non costituisce ancora uno Stato multietnico effettivo: il principio di unitarietà statale è fuori di ogni dubbio confermato, se non amplificato dalla forte stretta politica dei cingalesi buddhisti, gli unici ai quali sia consentito dalla Costituzione di essere eletti alla presidenza dello Stato (il che non impedisce la presenza di ministri tamil nel governo attualmente in carica). Che si tratti di una situazione sociale e politica temporanea o permanente non ci è dato di saperlo, ma almeno pare che per il momento nuovi conflitti siano evitati.

Miriam Rossi

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